di Martina Peruch
Attualmente, a mio parere, Viale Ungheria ha un ruolo piuttosto marginale nella vita quotidiana delle famiglie. La scarsità di negozi attivi, il degrado urbano percepito e le problematiche legate alla sicurezza limitano la frequentazione familiare. Non risulta un luogo "attrattivo" o pensato per il benessere intergenerazionale (bambini, anziani, genitori). Le famiglie – residenti e non – la utilizzano come luogo di passaggio o connessione, ad esempio verso la stazione, scuole o parchi limitrofi.
Le famiglie residenti giocano un ruolo di resistenza e di presidio. Alcune hanno partecipato ad azioni civiche (es. le ronde contro il degrado), altre vivono lo spazio più passivamente, limitandosi a conviverci. Non si riscontra una forte attivazione comunitaria strutturata, ma emergono forme di micro-impegno civico. Le famiglie, in questo contesto, sembrano più spettatrici che protagoniste attive, anche a causa della mancanza di spazi aggregativi progettati per loro.
In modo paradossale, sì: i cinque cartelli che vietano di sedersi sui gradini raccontano che lì, un tempo, qualcuno si fermava. Forse ragazzi, forse anziani, forse chi non aveva altri luoghi in cui stare. Quei divieti parlano di presenze non riconosciute, percepite come problema più che come parte della vita del luogo. Invece di custodire la memoria di chi ha abitato quello spazio, la si cancella con un ordine.
Solo in parte. Alcune pratiche "informali" di comunità persistono (es. piccole abitudini di quartiere, frequentazioni scolastiche), ma la progressiva chiusura dei negozi e il venir meno di luoghi di incontro riduce la possibilità di continuità. Non ci sono spazi di aggregazione "neutri" (es. biblioteche, cortili comuni, giardini pubblici attrezzati), né eventi regolari che rinsaldino la comunità.
Attualmente questo potenziale non è ancora espresso pienamente. Le installazioni artistiche temporanee nelle vetrine sfitte ad opera degli studenti dell’Accademia di Belle Arti Tiepolo sono un esempio di tentativo in questa direzione: una scintilla di possibilità. Tuttavia, manca una strategia sistematica per facilitare incontri e scambi, e mancano figure-ponte che attivino e accompagnino questi processi.
Al momento le opportunità sono limitate, ma esistono dei varchi. Le vetrine vuote possono essere usate per espressioni artistiche comunitarie. Gli spazi semi-abbandonati potrebbero essere riconvertiti con processi partecipativi (biblioteche di quartiere, bacheche comuni). I cittadini che hanno attivato ronde spontanee dimostrano che la volontà di partecipare esiste, ma andrebbe accompagnata e trasformata in progettualità costruttive. Serve una cornice di sostegno istituzionale che dia forma e riconoscimento a questi sforzi.
Viale Ungheria ci insegna che la partecipazione non nasce spontaneamente nei contesti di fragilità urbana: va coltivata, riconosciuta e facilitata. Quando gli spazi perdono funzioni, servizi e identità, anche la partecipazione si assottiglia. Tuttavia, i piccoli segnali di riappropriazione (come l’uso delle vetrine per l’arte) ci ricordano che ogni spazio può tornare a vivere se qualcuno lo guarda come risorsa, non solo come problema.
Creando occasioni informali di confronto tra abitanti, invitando le persone a esprimere desideri e bisogni, anche in forma creativa. Utilizzando gli spazi vuoti per attività aperte e visibili, capaci di coinvolgere chi vive il quartiere. Offrendo punti di riferimento stabili e riconoscibili per chi vuole proporre, contribuire o semplicemente sentirsi parte della comunità.