FORREST

FORESTIERA, FORESTA, FOR REST

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un viaggio 

Dov'è casa? Dopo anni di dialogo con persone in luoghi molto diversi, è diventato evidente non solo che c'è una grande fame di discutere una parola che assume sempre più significato, ma anche che queste conversazioni tendono spesso a concentrarsi sulla mancanza di casa. La casa sembra essere vissuta come un'assenza, come qualcosa di mancato e quindi desiderato, anziché una presenza fondante: longing piuttosto che belonging, brama piuttosto che appartenenza – 'mancasa'.

Sebbene i molti nuovi modi in cui le persone cercano il proprio posto suggeriscono il potenziale per un nuovo ricco arazzo di appartenenze plurali, non va dimenticato che l'innovazione sociale è anche una risposta al fallimento delle strutture sociali convenzionali, e che la frequenza con cui siamo tenuti a rispondere e ad adattarci alle mutevoli circostanze continua ad aumentare. Tra guerra, urbanizzazione, gentrificazione, povertà e condizioni di lavoro precarie, ci muoviamo sempre di più attraverso paesaggi al contempo omogenei e instabili, paesaggi che sono sia espressioni di queste condizioni sociali sia veri motori di esse. Tutti vogliono sempre sapere "tu, di dove sei?" ma quanti di noi riconoscerebbero quei luoghi?

FORREST (forestiera, foresta, for rest...) è una risposta artistica a questi spaesamenti e spiazzamenti, sfociando in un film e una sorta di libro senza casa, CANTI del PARTO, un viaggio disponibile qui sotto nella sua interezza come serie di scritti da stampare a piacere. È un'esplorazione delle distanze tra noi e il nostro habitat e un invito a riflettere sulle diverse mancase che magari ci potrebbero unire, per trasformare i desideri isolati in appartenenza condivisa, chiedendo dove potremmo incontrarci, for rest. Come tale, invito chiunque voglia partecipare a scrivere la propria cartolina di mancasa affinché si unisca alle altre che raccoglieremo qui insieme. 

piccola nota

Questo progetto mi sta molto a cuore e conclude un lungo viaggio, che può solo significare che il viaggio inizia qui. Dopo averci riflettuto a lungo, ho deciso di condividere questo lavoro senza scopo di lucro e di non farne un prodotto che avrei dovuto vendere e mettere in scena a tale scopo. Sono stato molto toccato dalla disponibilità e dall'apertura delle persone a esplorare con me questo soggetto così intimo nel corso degli anni, e spero che in questo modo la ricerca possa continuare senza un autore – ma piuttosto con una sorta di postino, che mi sembra più adatto. Buona visione, buona lettura...

FORESTIERA

FORESTA

FOR REST

dare voce e luce alla mancasa

Attraverso la rivelazione di una serie di paesaggi, FORESTIERA, FORESTA, FOR REST 'mette in luce' come il nostro senso di casa si trasformi nel tempo a fronte di bruschi cambiamenti sociali e ambientali. Mentre le scritture raccolte in CANTI DEL PARTO costituiscono una risposta più intima a queste domande, questo filmato di accompagnamento espande la ricerca in un viaggio nell'immaginario collettivo. 

parole e voce di Ula Sulaiman

ninnananna di Carpino cantata da Laura Cuomo

fotografia, registrazioni e suono Opher Thomson



CANTI DEL PARTO

un libro senza casa

Un bambino nasce tra due paesaggi vuoti, oriente e occidente, passato e futuro, che si estendono in una foschia lontana, indistinta e inaccessibile, deserto e oceano. Nel nulla tuttavia vede immagini infinite, ricordi frammentati di vite altrui, unici punti di riferimento con cui navigare. Così inizia un viaggio fra le macerie e le promesse, attraverso un mondo in cambiamento dove la speranza di qualcosa di meglio spinge le persone sempre più vicine in un isolamento sempre più profondo – e dove il senso di appartenenza si riferisce sempre meno ai sensi. Un'antica foresta viene abbattuta insieme a un'antica città. Una nuova selva di cespugli e rovi cresce parallela ai palazzi di un boom edilizio. Un vasto campo di grano cade in silenzio mentre le voci affogano nel coro urbano. E un salice, spazzato via nella tempesta che segue, getta un altro germoglio su nell'aria e un'altra radice giù nella polvere. CANTI del PARTO viaggia alla ricerca di casa dopo una perdita personale. Ma percorrere paesaggi di perdita collettiva rivela che non c'è modo di tornare indietro, né di andare avanti, senza compianto.

Sentitevi liberi di scaricare e stampare CANTI del PARTO qui o di selezionare un capitolo a scelta appena sotto. Se non avete una stampante o intendete leggere dallo schermo o su un telefono, potreste trovare più comoda la versione online che segue. 

           PREFAZIONE E DEDICA

Condivido queste parole anziché pubblicarle.


Si tratta di una sorta di libro senza casa, 

una ricerca, un viaggio.

Ciò che trovate qui è quindi un’impronta momentanea, una fotografia

Questa è una foto del mio viaggio.


È stata scattata nella mia madrelingua inglese, e ho cercato qui di tradurre quel momento nella mia lingua di vita, l’italiano, che continuo a imparare giorno per giorno, una lingua che per me resta molto fluida. Ho avuto la fortuna di avere il generoso aiuto di Ottavia Salvador che, con grande cura, ha ripercorso il viaggio dopo la mia prima prova, chiedendo e correggendo e suggerendo – paziente compagnia nonostante i miei numerosi tentativi e passi falsi. Gli errori che sono rimasti nonostante i suoi sforzi sono interamente miei. La ringrazio ancora e ringrazio anche Lisa Iannascoli, la quale, con il suo incoraggiamento e delicato aiuto per le prime pagine, mi ha convinto a intraprendere questa avventura nella vostra lingua. È grazie a entrambe che posso condividere ciò che segue.


Dedicato alle mie nonne Judith e Monica e a tutti i Salici,

ringraziando tutti coloro che mi hanno accolto nella loro casa.

I

P U N T O  D I  R I T R O V O

E X P L O D E


1. La foschia


"... Le mie prime parole sono il nome del monte più alto, un po' fuori dalla città, una campana di terra su pendici calcaree – il motivo per cui sono qui. Una volta intendevo camminarci, una sorta di pellegrinaggio, ma adesso un tassì giallo pare la levatrice perfetta, rievocando fin da subito quella città di arrivo al di là dell'oceano, sognata da lontano da così tanti: l'orlo di un posto migliore; un futuro migliore oltre l'orizzonte ..."

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Non c'è luce perché non c'è finestra. 

Non c'è buio per quanto è pesto.

Mi rannicchio, mi distendo e mi rannicchio di nuovo. Giorni e notti passano, gli uni senza le altre, e ascolto il ventilatore che succhia l'umidità dalla mia pelle. Le vertigini diminuiscono senza dimensioni e i miei occhi sono più freschi senza luce. Gli occhi hanno le palpebre e la loro posizione predefinita è scesa, chiusa, oscurante. La mente dietro di essi assume il ruolo di una stanza, di uno spazio, uno spazio in cui si può aspettare, e non rimane altro che aspettare.

Il vuoto non ha onda, eppure non è quieto. Come si potrebbe proiettare questa stanza? Il letto è troppo grande per un corpo solo, ma so che da qualche parte c'è un bordo di questo mondo piatto e immagino di cadere: barche cadono fuori dal quadro. Le lenzuola pendono, puzzano di febbre. Lentamente la mia mente comincia a riprendersi – credo di aver sentito un gabbiano – e mi avventuro oltre. Oltre il letto ci sarebbero le pareti, bianche opache, e avvitato in una ci sarebbe il buco nero riflettente che ha sostituito la finestra, la strada qui ridondante per tutte le infinite, telecomandate strade altrove. 

Da qualche parte un'aspirapolvere aspira polvere.


Sogno d'aria. Ho bisogno d'aria. Mi tiro su e cerco a tentoni con gli arti ciechi, la mia mente barcollante per tutto il movimento improvviso, finché non arrivo a trovare il metallo della maniglia di una porta. Prendo del tempo per tenerla, sentendo la forma inconsueta della mia mano nel mentre – il pollice infilato sotto le dita. Pian piano la stringo affinché una fessura di luce dia contorno alla porta, portando nella stanza una penombra bastante a concedere un po' di struttura a questi giorni di allucinazioni.

I miei occhi sono spalancati e le mie gambe instabili da cerbiatto, ma ormai sono risoluto, assorbito dall'impulso: io esco. Prendo un altro respiro stantio e ci riprovo. Sovrappongo gli indumenti alla pelle fino a sembrare meno magro, un cappello ai capelli unti. Emergo dal mio anti-grembo, le labbra serrate in difesa, e mi concentro su ogni prossimo passo. Debole e sudaticcio, lascio impronte sbavate lungo il corrimano cromato mentre scendo nell'atrio dell'hotel. Alla reception non c'è nessuno. Tre orologi segnano l'ora in tre città diverse. È mattina. 

Il grido della strada mi chiama e il sole invernale affluisce dalla soglia lungo una sequenza diagonale di piastrelle smaltate, infuocate – attirandomi avanti, trascinandomi fuori. Prendo il passo nella luce, accecato dalla vista, e sento un'acqua muoversi nel profondo. Euforico e sopraffatto non ho altro da afferrare che me stesso, ma ormai il mio volto è uno dei tanti, e avidamente prendo l'ossigeno e l'anidride carbonica. Il mondo pare quasi impossibile, ma sono vivo e mi getto a capofitto nelle cose, facendo cenno a un tassì, determinazione nella mascella.

Le mie prime parole sono il nome del monte più alto, un po' fuori dalla città, una campana di terra su pendici calcaree – il motivo per cui sono qui. Una volta intendevo camminarci, una sorta di pellegrinaggio, ma adesso un tassì giallo pare la levatrice perfetta, rievocando fin da subito quella città di arrivo al di là dell'oceano, sognata da lontano da così tanti: l'orlo di un posto migliore; un futuro migliore oltre l'orizzonte. Mi permetto una piccola sensazione di un destino occidentale e richiudo gli occhi alla prima rotatoria.

La strada termina a ridosso della cima, e mi srotolo dal tassì per completare la salita a piedi. Fa caldo. Fa freddo. La luce rimbalza dalla roccia chiara, brilla nell'erba secca e i miei occhi faticano ad adattarsi. Ogni passo è un'ombra, ogni passo è un peso, la gamba in appoggio tremante mentre l'altra tenta di andare avanti. Le mie membra si sentono sciolte, i miei muscoli come ricordi. La cima non sembra così lontana, ma neanche avvicinarsi. Cedo, e mi lascio deviare dal sentiero per crollare sulla facciata calda di una larga roccia piatta. Guardo il duro rilievo del primo piano fratturato verso l'orizzonte sbiancato, quella che una volta era MESOPOTAMIA, e mi concedo la mia nascita. 

Là fuori, oltre i miei piedi, ci sarebbe la terra tra i fiumi. Le primissime città erano costruite in una mezzaluna di fertilità che si estendeva da questo punto più settentrionale. Qui, tra le erbe, abbiamo trovato le piante che sono diventate le colture che hanno dato origine a quelle città: il grano e l'orzo crescono ancora selvatici sulle rive del vulcano inattivo alla mia sinistra. Ma i fiumi non allagano più e la terra è secca. I semi a lungo esportati ora sono alimenti importati. Le città sono state distrutte, gli ultimi resti dei loro antichi templi cablati con esplosivi e detonati in un attimo per le telecamere. Non ci sarà un passato. Eppure sono nato con una memoria, di cose a cui non ho assistito, immagini di esperienze che non conosco. Bombe cadono da quel magro cielo freddo e la gente è in partenza, abbandonano case che non ci sono più. Attraverso la polvere vedo i buchi degli edifici scheletrici e mi unisco ad altri in cerca di coloro che si nascondono – ma tutto ciò che vedo con i miei occhi è la foschia bianca della distanza. 

Continuo a guardare. Un paio di erbe fremono accanto a me nell'infinito presente non raccontato. C'è pace nel loro movimento e, concentrandomi, noto anche un cane che sta camminando fra i massi – qualcosa da leggere. Socchiudo gli occhi, cercando di tracciarlo, ma la sua pelliccia è dello stesso grigio sabbioso della pietra, e presto lo perdo tra le rocce. L'evaporazione del suo percorso mi lascia a guardare le curve di due incisioni che si inarcano l'una verso l'altra, in attesa della pioggia che le ha disegnate: due vie uterine d'acqua nel calcare, pronte a unirsi a molte altre mentre scendono al grande bacino sotto, dove l'argilla è stata incisa nella prima scrittura. 

Ho la stranissima sensazione di riconoscere il paesaggio, e mi rendo conto che la forma della terra replica una vista delle colline gessose dove si sono incontrati i miei genitori, un'elevazione le cui incisioni portano l'acqua direttamente nella foschia del mare. Pare inspiegabile, ma proiettiamo i paesaggi che portiamo, e non sono sicuro se l'immagine nell'occhio della mia mente sia autentica o solo una costruzione malleabile, colata per confortarmi dalla nuda topografia mentre la mia mente liquida si agita per qualcosa di familiare. L'immagine diventa più vaga quanto più cerco di ricordarmela, e alla fine devo accettare di non conoscere il paesaggio che mi strugge meglio di quello che ho davanti. Sto guardando dentro un cielo notturno in cerca di qualche senso dell'origine, tirando fuori stelle dal cappello per navigare. Una giovane coppia è andata a vivere nella grande città dove le costellazioni di luce sono troppo luminose per l'astronomia.

L'aria è curativa però e riesco a bere un sorso d'acqua. Credo che non ci sia più niente che debba uscire da me, che il corpo abbia preso la sua forma, e raccolgo un piccolo sasso tondo da tenere nella tasca come prova. È il momento. Mi tiro su e persevero verso la cima – verso il punto di ritrovo. Finalmente sono arrivato, anche se molte migliaia di anni in ritardo. Una leggera brezza sussurra tra i morbidi peli che crescono dal mio statico corpo mentre lascio che la vista sprofondi.

Davanti a me stanno persone di pietra in un cerchio, scolpite in alte T e incise con gli animali con cui condividono la Terra. Tra di loro ci sono un leone, un bue, un cinghiale e un gatto. Una semplice volpe è descritta con la sua lunghezza, una linea che va dalla bocca aperta alla coda larga, le sue gambe corte piegate alle ginocchia, pronte a balzare. Ci sono anatre e gru e lucertole e scorpioni, serpenti si contorcono lungo le loro lastre levigate. Quasi tutti gli animali hanno grandi bocche. Hanno fame, come noi. 

La maggior parte dei venti cerchi di pietra sono ancora sepolti, i meticolosi scavi in corso. È il più antico santuario mai scoperto e del tutto inconcepibile, i suoi pesantissimi megaliti scolpiti ed eretti prima dell'agricoltura e degli insediamenti che dovrebbero essere necessari per una così colossale collaborazione. Forse quindi è tutto il contrario, forse è il mistico che induce l'empirico? Come ci si era sentiti a realizzare una tale visione? Il monte sacro aveva permesso di sentirci noi stessi sacri? 

Fisso lo sguardo alle disposizioni delle pietre, create su vasti tratti di tempo insondabile, e sento che già allora prima di stabilirci avevamo sentito il bisogno di appartenere. Ci siamo riuniti qui e abbiamo sognato insieme, abbiamo plasmato il nostro mondo. E abbiamo dato alla luce degli dei.

L'umiltà si corrompe così facilmente in orgoglio; il doloroso bisogno di appartenere muta. Persino ora, per quanto le figure di pietra si guardino l'una verso l'altra con calma, io non posso fare a meno di gettare lo sguardo fuori, da questo punto più alto, al mondo ai miei piedi. Forse è più facile credere che il mondo appartenga a noi invece, la verità invertita? Ma là fuori, in quell'accecante foschia bianca, persone da tutto il mondo si riuniscono oggi per uccidersi nel nome dell'appartenenza, l'identità ridotta a negazione e demarcazione, ogni legame espresso come separazione. Alle figure di pietra sono cresciute facce autoreferenziali e saranno abbattute, per non parlare degli altri animali che da tempo sono stati cancellati completamente dalla storia – come se il mistero ci avesse sopraffatti. L'antico santuario è recintato, giustamente, la mia storia protetta da me. Non posso entrare nei cerchi di pietra, posso solo orbitarci intorno.

Così, come tutti gli altri, mi allontano dal passato e inizio la mia discesa verso l'occidente, già allungando l'ombra dietro di me. 


2. Tre orologi


"... Dentro il mio scompartimento trovo due uomini e due età, uno che immagina dove va il treno, uno da dove viene. Entrambi viaggiano perché ritengono di doverlo fare. Il primo è appena salito a bordo, e si eccita nel vedere che sono straniero: una parte del suo futuro, una parte della promessa. Il secondo è già sul treno da tempo e vede solo un altro corpo con cui deve condividere lo spazio ristretto. Uno in più, calcola, e dobbiamo restare dritti per tutta la notte. Ma i sedili si fronteggiano e lo spazio limitato crea un'intimità che ci unisce subito. Stiamo andando nella stessa direzione d'altronde. Offre la sua mano pesante in segno di pace, liberando il giovane a iniziare la conversazione che desidera: 'Da dove vieni?' Aggiunge una nuova domanda che sentirò sempre più spesso, una che dapprima dà l'impressione di una nuova libertà: 'Cosa fai?' ..."

            PRIMO MOVIMENTO

Per fortuna il tassì mi aspetta ancora. Il tassista sta lì con un custode, sbuffando una sigaretta al sole, e insieme mi guardano tornare lungo il sentiero. 'Bello?' chiede il custode. Sono via da ore. 'Oggi bellissimo', rispondo: a quanto pare a questa lingua non serve 'essere'. Il custode sorride e chiede da dove vengo. Il tassista fa tintinnare le chiavi.

Ignition, liftoff. La nostra discesa è veloce. Questa volta tengo gli occhi aperti. Ci vorrà del tempo prima che io possa mangiare, ma la fame di un bambino si è risvegliata in me, e mi sporgo in avanti mentre scendiamo la strada serpeggiante del brullo versante, facendo uno slalom oltre l'ultimo branco sparso di capre irsute – le campane suonano. 

Le cose stanno cambiando. La strada si appiana e vedo nuovi canali di irrigazione che portano acqua e mais industriale, a testimonianza degli enormi progetti di sbarramento a monte. Altre centinaia di villaggi saranno inondati insieme ad altri siti preistorici della regione, i cui megaliti sono già stati trasferiti nella sicura oscurità illuminata dei musei cittadini. L'acqua si insinua nei giardini e infiltra nelle cucine, salendo sui muri giusto abbastanza lenta da poterti convincere che nulla accade.

Arriviamo all'incrocio con la strada principale e vedo la prima ombra in questo mondo aperto: una leggera screziatura della luce, un salice piangente. Sotto, una poltrona ammuffita ha assunto lo stesso giallo-verde delle stanche foglie sopra, e accanto vi giace una mucca, il collo liscio legato con una corda al tronco ruvido. Il tassì esce nel traffico e torco il mio collo all'indietro per guardarli scomparire.

Ci buttiamo nella prima città. Un coro di clacson si alza e il traffico si arresta in una babele variopinta di incontri e scambi. Un furgone si è incagliato, e lo scarico delle sue zucche giganti consente a uno straccivendolo di spingere il suo carretto nella mischia per barattare le sue cianfrusaglie malconce. Nello stretto varco creato riesce a passare un'intera famiglia in scooter, prima che tutti gli altri a piedi ne colgano l'occasione. Temerario faccio lo stesso, abbandonando il tassì per l'ultima luce del pomeriggio. L'autista mi dà il suo biglietto da visita, esitante.

Il mio percorso è a zonzo, la mia strada non proprio mia, e all'inizio c'è poco tempo per digerire i molti impulsi che mi torcono le spalle e oscillano i fianchi mentre schivo e sterzo quelli con intenzioni più chiare. Ma mi adeguo, come si fa, e la mia vacuità comincia a sembrare una leggerezza, la mia malattia una lucidità. Succhio l'odore secco del tabacco grezzo che aleggia appena sopra l'azione, e prendo posto dietro i copricapi di due anziani in costumi divergenti che mi aprono la folla a braccetto, animati nelle loro trattative e deliberazioni: piedi agili che navigano una città storica tuttavia giovane.

I bambini giocano veloci, urlando la loro giovinezza col sangue che pompa, correndo vertiginosi per le strade per rivendicarle. Al contempo i grandicelli fanno lo stesso in motorino, i loro piccoli motori scatenati e rumorosi. Sono intersecati da quelli con qualche direzione – sacchi sulle spalle, scatole sui carrelli – un ragazzo sfreccia tra le bancarelle del mercato con un gallo sotto il braccio, entrambi con gli occhi puntati soltanto su ciò che hanno davanti. 

La città è fatta di consegne, costruita su ciò che viene da altrove: è intrinsecamente cinetica. Eppure, nonostante il movimento e la velocità, c'è poco in termini di fretta. Il tè deve arrivare caldo, un piatto di dolci pulito e intatto, ma c'è ancora tempo per quel tè condiviso, e c'è ancora tempo per creare tale stravaganza da noci e miele. Perché per quanto tutto abbia bisogno di essere contato, ha bisogno pure di essere raccontato: c'è tanto da narrare quanto da vendere – le due cose spesso difficili da distinguere. Uccelli cinguettano in gabbie. Bocche urlano in megafoni. Dadi sbattono come denti. Tutto si trova in aria e tutti si contendono una posizione. Sopra la folla, una catasta di pane al sesamo scivola precariamente come se lievitasse, tenuta in equilibrio senza mani sopra una faccia che si accorge del mio sguardo: solo un accennato sorriso di riconoscimento.

Vengo fermato da un cartello stradale che indica la via per un'altra città antica, il cui nome ormai è sinonimo di guerra. È difficile pensarla come un luogo reale, cogliere che in realtà le immagini nella mia testa appartengono a qualcuno, anzi, a molte delle persone attorno a me: molti dei nati lì stanno costruendo nuove vite qui. Pronuncio il nome della città, ricordandomi che per loro significa casa, ma è dura nel mezzo di questa città così vibrante pensare che un'altra così vicina non ci sia più. Oltre il cartello la strada si biforca in una Y, e tra le due opzioni uno spazio aperto permette al cielo serale di far piovere vernice ambra-viola su chiunque si trovi presente. Un drappello di piccioni vi gira attraverso, sbattendo forte sopra bambini che rincorrono un pallone – maglie da calcio di altre città lontane.

Continuo con la folla e mi sento apparire in mezzo a tutti, ricordando la mia scomparsa la prima volta che sono arrivato. Allora la febbre mi era appena salita, le mie viscere calde e agitate, e quando ho raggiunto il centro stavo nuotando per le strade come sott'acqua, la testa che girava, la corrente contro. Oggi i ricordi svolazzano intorno come pesci, colorati ma silenziosi, e ricordo quanto mi sentivo invisibile, grato di evitare un contatto visivo in quell'intimo momento, ma in grande difficoltà mentre tutti mi urtavano così alla cieca. Ora l'intensa esigenza fisica di svuotarmi è invertita, e non sono più il fantasma di quell'arrivo parallelo: ora mi guardano e mi sorridono e mi salutano, offrendo la loro merce e curiosità. I piccoli in particolare non riescono a distogliere lo sguardo, seguendomi con sorrisi di cameratismo, come se sapessero che io sono uno di loro sotto le mentite spoglie di adulto.

Arriviamo ai giardini sacri al crepuscolo, e mi lascio incantare dalla loro bellezza. Un costone roccioso dominato da due antichi pilastri sovrasta piazze bianche in lastre di marmo che si aprono verso distese d'erba e alberi carichi di storni. La gente tace e rallenta, placandosi come un fiume che trova lo spazio per serpeggiare. Seguo pacifici portici di fresca pietra sino a quando mi imbatto negli stagni sacri, che, illuminati da luci blu e verdi, rivelano i loro preziosi abitanti. Corpi scuri e muscolosi scivolano l'uno sull'altro appena sotto la superficie.

I miei pensieri sono interrotti dal brusio di una radio della polizia che passa dietro, e girandomi noto l'ingombrante presenza di un veicolo blindato sotto uno dei lampioni. Quell'inevitabile sensazione mi attraversa come previsto. Le famiglie passeggiano davanti ai soldati e alle loro armi automatiche puntate: giocattoli vengono lanciati in aria; una borsa della spesa si spacca. Non succede nulla, ma potrebbe succedere di tutto. Tutti necessitano protezione, perché tutti sono sospetti, e me ne vado a sdraiarmi nell'erba nera, esausto.

Gli altoparlanti crepitano e un invito alla preghiera buca il cielo, scatenando ombre-esplosioni di storni dagli alberi. Provo a guardarli plasmare nuvole nel buio, finché i miei occhi non atterrano sul costone sopra i giardini. Tutto questo complesso esiste perché una volta una madre si nascose nelle loro grotte per partorire in segreto. Il re, spaventato dal suo stesso popolo, non lasciava vivere nessun bambino, e questo figlio, allattato poi da una gazzella, sarebbe diventato il profeta-padre di tutte e tre le religioni monoteiste, a tutti quei figli di figli di figli con i loro nomi e terre e battaglie. Lascio giacere pesante il mio corpo, chiedendomi quale fosse stato il nome di lei: i libri sacri non ne fanno menzione. 

Di fronte alla sua grotta ci sono state una sinagoga, una chiesa e ora c'è una moschea, ciascuna costruita in lode a un dio che offre la pace, ma una pace da proclamare più forte degli altri, e dalle torri più alte. Il canto lamentoso del muezzin echeggia contro la pietra mentre gli ultimi uomini si lavano i piedi e quando finisce risalgo sui miei. Uscendo dai giardini, passo di nuovo davanti agli stagni sacri e noto che l'acqua è agitata. Una delle carpe più grandi viene fatta a pezzi in una frenesia: i pesci stanno mangiando se stessi.

Quella notte sogno la mia mano infantile che disegna con matite colorate. Sta disegnando un bambino disteso su una roccia piatta in cima a una collina. Il bambino sorride; suo padre è pronto. Alzo gli occhi dal banco in cerca di lode, ma il gesso è già stato cancellato dalla lavagna. Non c'è nessuno. Sulla parete ci sono tre orologi. Le loro lancette ticchettano, ma l'ora non cambia mai, e da nessuna parte si avvicina l'ora di pranzo. Inchiodata con gli orologi c'è una croce di legno: un altro figlio in attesa, steso a torso nudo. Tiro su le lenzuola.


La mattina dopo scendo le scale un po' più grande. Questa volta un uomo vestito in modo impeccabile attende alla reception. Non si muove nel vedermi, ma vedo i suoi occhi mutare, un lampo di preoccupazione che lascia il posto al calcolo, la sua cura maschile da esprimere tramite azione e risolutezza. Mi chiede se sono malato senza domandare ed elenca i miei sintomi allo stesso modo: ha la cura, dice, e chiama per i due ingredienti che gli servono. Protesto docilmente che già sto guarendo, ma la mia bocca si muove strana e le mie parole non viaggiano, come se dormissi ancora o la vita non fosse mia per decidere. Mi dice di sedermi. 'Soluzione militare', aggiunge sottovoce, a mo' di incoraggiamento. Guardo i miei occhi dilatarsi e il mio corpo trasalire mentre lui versa in una tazza una generosa porzione di caffè finemente macinato. Solennemente introduce il succo di un intero limone, spremendo forte per estrarne fino all'ultima goccia, prima di prendere un cucchiaino per frullare l'intruglio amaro.

Mescolandolo mi chiede cosa penso della sua città, e spiega che probabilmente saranno questi i suoi ultimi mesi qua. Ama la sua casa, racconta, ma ama pure la sua amata e lei vive a grande distanza, lontana nell'occidente. Batte il cucchiaino sul bordo della tazza con un sospiro e mi passa la medicina: 'e nessuno vuole andare a est'. Lo bevo e l'acqua scorre via dalla mia nuca, un battesimo per il viaggio che mi aspetta. Le mie tempie tremano mentre la caffeina mi colpisce e lo stomaco si ritrae, ma lo trattengo, stringendo le mani finché la nausea non passa. Noto i suoi gemelli al polso, tulipani discreti, la sua promessa del futuro.

All'autostazione uomini gridano i nomi di altre città al ritmo delle continue palpitazioni del mio cuore – 'sta per partire!' – e osservo le persone accumularsi e andarsene. Il trambusto è affaticato, come spesso nelle autostazioni, e molti dei presenti sono venuti soltanto per approfittare del relativo calore dopo una fredda notte in strada. Mi unisco a loro sulle panchine, ma dopo un po' vedo che non sono davvero qui con me, e guardando le loro espressioni distanti mi chiedo se in realtà non siano loro a viaggiare più lontano. Infine il vecchio di fronte si sveglia, sbadigliando prima di aprire i suoi occhi pallidi e sollevare lo sguardo verso di me. Ma io me ne sono già andato: l'autobus cambia le marce immettendomi sulla strada verso ovest. Il mio posto è vuoto. 

Fuori dalla finestra graffiata ci sono roccia e polvere. Aspetto di scorgere il grande fiume, scrutando le pianure aride per vedere se è rimasta qualche pecora, se un pastore veglia ancora sul gregge. Immagino un falò sul crinale, vedo una ciminiera; è un cementificio che interrompe momentaneamente la monotonia, la roccia macinata in polvere per i suoi forni, le fiamme che ardono a duemila gradi. L'autobus accelera per sorpassare un altro flusso di camion.

Quando compare il fiume, compare all'improvviso, e alzo le mani sul vetro per la sorpresa. Il ponte offre un'ampia vista sulla valle, ma sto guardando un muro al posto dell'acqua, l'energia del fiume trattenuta sopra di noi dietro una grande diga. I miei occhi saltano per un ulteriore colpo: a terra, sotto i bastioni, c'è un altro muro – il perimetro sorvegliato di un campo profughi. Vite trattenute. Chi si trova dentro è fuggito dalla guerra dove quell'acqua non arriva più. I miei occhi guizzano tra le migliaia di tende mentre immagino le rovine e i mosaici sommersi dietro di esse, ma l'autostrada taglia dentro la collina prima che le mie pupille possano stabilizzarsi, e la vacua roccia torna a scorrere davanti. 

La visione continua a riprodursi nella mia mente, un'impressione zootropica che non riesco a interpretare, il pianeta gira troppo veloce, gettando roccia grigia verso il cielo come un vaso di argilla che prende forma, la distanza che diventa qualcosa – ci stiamo avvicinando a una grande montagna vulcanica, e ai suoi piedi ci deve essere la seconda città.

            SECONDO MOVIMENTO

Gocce di pioggia schizzano contro il vetro e fra di esse vedo una città molto diversa dalla prima. La strada ci porta in linea retta attraverso il corpo metropolitano, bisecando una griglia di ampi viali che dividono i palazzi in isolati. Sembra che siano stati costruiti nello stesso periodo: una città industriale. Accanto a me un ragazzo la guarda senza curiosità e gli chiedo cosa produca. 'Zucchero', dice semplice. 

L'autobus si ferma dove la tassellatura urbana si disintegra in lotti inutilizzati. Ciascuno è in vendita, non più uno spazio di oggi ma un'opportunità di domani, un'occasione: spazio di accumulo; il tempo della diga. Sulle pendici, sotto le nuvole pesanti, vedo centinaia di nuovi palazzi spuntare come funghi dalla roccia dura, le finestre senza vetri, le pareti senza intonaco, cemento grigio su basalto nero. L'espansione è stata veloce, la folata di una promessa. Il vento soffia ancora, cambiando direzione, e proseguo a piedi.

Qui le strade non hanno nomi. Ogni strada, isolato, palazzo, scala, piano e appartamento ha un numero, e mi immagino di srotolare una mappa cartacea di toponimi numerici intanto che traccio una rotta. Il vento si alza e la luce si riversa sulle strutture rigide, illuminando prima un palazzo e poi un altro mentre le nuvole si spostano e scompongono, rivelando un paesaggio spontaneo di altezza e profondità incommensurabili. Da qualche parte del fumo bianco ascende in esse; nell'altra direzione scende la pioggia con la luce. In questo cielo vertiginoso piccole sacche continuano ad aprirsi, cospirando insieme lentamente per svelare il firmamento, e poi, all'improvviso, la montagna. 

Il massiccio si erge solo, un anello di vette vulcaniche visibili da tutte le direzioni, abbastanza elevato da rimanere innevato tutto l'anno – un grande mucchio di zucchero sopra la città. I due sembrano appartenere a diversi piani del tempo, ciascuno a suggerire l'impossibilità dell'altro, e sebbene le nuvole a dividerli diradino in sottili teli di evanescenza, il distacco rimane forte. Devo guardare dall'una all'altra, dalla montagna alla città e alla montagna ancora, finché la città numerica mi sussurra all'orecchio la domanda esplicita, e mi chiedo banalmente quanto sia alta la montagna.

La strada è così dritta che mi sento sempre meno sicuro della mia direzione. Fino a dove andare? È come se mi fossi perso qualcosa. Arrivo a un altro incrocio perpendicolare e ancora le persone mi passano ad angolo retto. Guardo lungo le quattro strade trafficate e mi accorgo che non c'è un vero centro al quale arrivare. In milioni possono vivere qui, ma la città non è più un luogo di ritrovo. Nessuno sorride perché non ha da vendere. Il loro lavoro si misura in ore, il cui prodotto mi sarà venduto altrove da qualcun'altro. Le nostre relazioni non sono più dirette; le nostre vite sono tangenziali.

La luce svanisce ma il giorno no. Le fabbriche non chiudono per la notte. La nuova logica è ineluttabile, fin dal primo semaforo che mi ha trattenuto, una dicotomia di stop-go permette alla città nel suo complesso di funzionare continuamente. Ogni off implica un on, il conto alla rovescia inesorabile, l'attesa intrinseca. È una città di turni. Comincio a notare la vacanza nei corpi intorno a me, il modo in cui le braccia pendono disoccupate, le mani vuote e pesanti: off work. Penso ai loro colleghi sulla linea di produzione ora, in attesa che il turno finisca, in attesa che il turno inizi. I lampioni si accendono all'unisono. 

Ma ho sorriso io a qualcuno? Cosa sto aspettando? L'uomo rosso. Mi rivolgo all'uomo di fianco e lo saluto. Lui annuisce, aspettando la mia domanda, ed entrambi ci rendiamo conto che non ne ho una. Uomo verde. Mi chiede da dove vengo e io gli restituisco il favore. Indica la terra, forse chiedendosi perché qualcuno dovrebbe scegliere di visitarla: dico che la montagna è davvero molto grande, e lui sorride nel riconoscimento, augurandomi una buona serata. Mi sento liberato e inizio una serie di piccoli dialoghi con chi ho attorno, ponendo semplici domande sulla città. Le persone sono sorprese dalle mie intrusioni ma rispondono con gentilezza, chiedendomi ogni volta da dove vengo, come pure dove vado. È sempre la menzione della montagna però che ci consente una breve connessione effimera. Loro vivono qui e io no, ma stasera ci troviamo sotto lo stesso vulcano dormiente, una presenza nera nel cavo cielo notturno.

Il freddo mi divora e mi siedo in una mensa per riscaldarmi. I tavoli sono lunghi e ricoperti di carta ruvida, pinzata agli angoli, non occupati. Solo a uno di essi alcuni uomini taciti bevono del tè. Ancora non ho mangiato e decido di rischiare un po' di pane. Il cameriere toglie le posate in maniera cerimoniosa. Una televisione trasmette in muto, le sue immagini di guerra scorrono in silenzio mentre vari capi di stato escono dalle auto tra le bandiere e i microfoni, provando a convincersi della parte. In alto a destra dello schermo i quattro numeri dell'orologio avanzano lentamente, presentando le storie come fossero dati nel tempo, implorando lo sguardo al crono-metraggio del canale news 24. Il cameriere guarda pure, avendo smesso di guardarmi da tempo. Prendo un altro bocconcino. Una donna pesantemente truccata gesticola di fronte a una mappa. Nubi di pioggia, nubi di neve. Pubblicità. Tutti i numeri si azzerano – zero zero zero zero – e la guerra ricomincia. Solo ora la porta scatta, i suoi cardini caricati a molla stridono mentre un treno di operai sferraglia dentro, uomo dopo uomo, stanco, affamato. La fine di un turno. L'inizio di un altro. I tè e le zuppe arrivano istantaneamente; nessuno deve ordinare.

Ora i lunghi tavoli sono tutti occupati, ma gli uomini mangiano senza conversare, godendosi la momentanea tregua di aver terminato un turno prima che l'inevitabile conto alla rovescia diventi evidente ancora una volta. Sebbene non ci siano molte parole, l'interazione non manca, sottili gerarchie in gioco, piccole sottomissioni e affermazioni quando si passa il sale, riconoscimenti con cenni, gli stessi sorrisi quando la stessa vecchia battuta li richiede, quella combinazione di fastidio e tolleranza che deriva dal passare così tanto tempo insieme – come un codice di famiglia, o forse quello di un borgo. Non sono più al lavoro, ma quasi tutti indossano ancora la stessa giacca, la sigla della fabbrica come un distintivo di appartenenza sul seno sinistro. Mi chiedo quanti di loro siano nati qui, e se ci sia qualcuno che dorme nell'appartamento identificato con il proprio numero.

Altri uomini stanno arrivando, così rinuncio al mio posto e torno fuori nella notte. Cammino bene per tenermi caldo sotto tutte le finestre. Circa un terzo sono illuminate, lampadine appese sopra i tavoli, un bianco fluorescente che dà un bagliore freddo alle cucine, tenendoci svegli. Mi avvicino ai pennacchi di fumo finché non vedo pennacchi di pioppo: una fila di alberi alti come le ciminiere segna l'ingresso della fabbrica con orgoglio. Dall'interno fuoriesce un sibilo incessante, e ogni tanto suona una sorta di clacson-campana che sale nella notte. Ci entrano camion carichi di rocce marroni grandi come pugni. Le ho scavalcate lungo la strada e ne raccolgo una afferrando il mio errore: non sono rocce ma barbabietola da zucchero, ovvio. Me la rigiro in mano, la terra polverosa sulla punta delle dita, e mi chiedo da dove potrebbero venire così tante barbabietole.

Una guardia di sicurezza mi osserva benché io non sconfini. Non vedo la sua faccia e mi sposto per istinto finché neanche lui vede la mia. Appena posso però, lascio la strada e traccio il bordo del complesso per provare a vedere meglio. Oltre la cinta, vari fabbricati emettono bassi ronzii insieme a quell'acuto sibilo di prima, suoni che suggeriscono pressione e calore estranei al mio freddo. Ma non c'è nulla all'esterno che suggerisca cosa accade all'interno, nessuna finestra che esponga né gli operai né la produzione. Lo zucchero continua a raffinare; io continuo a raffreddarmi. Proseguo. Il suolo è accidentato e sento i miei piedi mentre esplorano il terreno invisibile. Non è né terra né roccia, ma qualche forma di detrito. Posso dirlo dagli spigoli, i bordi che derivano dal rompere le cose. Allento un po' le ginocchia per attutire ogni passo, le mie orecchie tese per udire qualcosa di più del battito cardiaco.

Il complesso è molto più grande di quanto credessi e mi trovo fra una serie di magazzini bui, incerto se sono in uso o meno. Non c'è più rumore. La città emana sufficiente luce per illuminare di rosso le nuvole, e due opache rotaie di ferro riflettono quel tanto che basta per essere visibili nell'oscurità. Seguo la loro lucentezza, tastando le traversine di legno sottostanti, grato per la loro direzione. Dopo un po' appare una luce più forte che si allarga e divide in altre, e mi rendo conto che sto arrivando alla stazione. Ancora più sorprendente è la vista di una folla di persone in vari gruppetti lungo il binario. Sono rivolti all'altra direzione e nessuno mi vede emergere dal buio per raggiungerli. 

Sento subito un altro modo di aspettare. Aspettative. Si anticipa. Le persone fumano e trascinano i piedi con irrequietezza, inducendo il faro luminoso del proprio futuro verso di loro. Ma il treno notturno è in ritardo. Chiedo a uno in uniforme se sono rimasti dei biglietti. 'Per dove?', chiede. Faccio un gesto fino in fondo e lui scrive un altro biglietto per la terza città, sola andata.


Il treno si ferma a fatica e le porte si aprono con un tonfo. Nessuno scende. L'imbarco richiederà del tempo ma c'è cortesia e civiltà mentre le persone si aiutano a salire con tutti gli effetti personali. Non c'è fretta. Adesso che il treno si è materializzato tutti confidano nell'arrivo, qualunque sia l'ora. Questo non è un tragitto pendolare. Vedo da tutte le borse gonfie e valigie nastrate che hanno aspettato questa partenza da molto più tempo del freddo ritardo delle ultime ore. La data di oggi è stata segnata su centinaia di calendari in tutta la città. Di sicuro altri saranno in attesa della partenza di domani, e altri ancora della prossima, anche se tanti non faranno il viaggio in prima persona: alcuni sono qui a salutare i propri cari, pacchetti di cibo dati all'ultimo momento, dettagli arbitrari di consigli ripetuti, baci e abbracci. Un altro bacio. Il fischietto del capotreno suona una seconda volta e c'è un leggero strattone della ​​locomotiva. 

Mi muovo lungo il treno alla ricerca del posto giusto, distratto dalle tante facce diverse. Le carrozze sono divise in scompartimenti e in ognuno vedo come le persone si stringono la mano e tolgono sciarpe e giacche, sistemandosi per il viaggio. Siamo giovani e vecchi, ricchi e poveri, ma noto il fatto che siamo tutti estranei: non ci sono famiglie né amici né coppie; tutti sembriamo viaggiare da soli – soli insieme

Dentro il mio scompartimento trovo due uomini e due età, uno che immagina dove va il treno, uno da dove viene. Entrambi viaggiano perché ritengono di doverlo fare. Il primo è appena salito a bordo, e si eccita nel vedere che sono straniero: una parte del suo futuro, una parte della promessa. Il secondo è già sul treno da tempo e vede solo un altro corpo con cui deve condividere lo spazio ristretto. Uno in più, calcola, e dobbiamo restare dritti per tutta la notte. Ma i sedili si fronteggiano e lo spazio limitato crea un'intimità che ci unisce subito. Stiamo andando nella stessa direzione d'altronde. Offre la sua mano pesante in segno di pace, liberando il giovane a iniziare la conversazione che desidera: 'Da dove vieni?' Aggiunge una nuova domanda che sentirò sempre più spesso, una che dapprima dà l'impressione di una nuova libertà: 'Cosa fai?'

Fa lo studente di ingegneria. Sarà un ingegnere. Lascia alle spalle dei treni nelle menti delle persone che lascia alle spalle: non ci sono lavori decenti nella sua città natale. Ha studiato parecchio, verso la sua destinazione, e parla bene la mia lingua. Il suo entusiasmo mi fa sorridere e invecchiare un po'. L'altro uomo invecchia di più per tutte le parole che non capisce, e ancora di più quando sono state tradotte. Cosa fai? Lavorava nel settore tessile, dice, ma la fabbrica ha chiuso. Ora sta andando a raggiungere suo cugino nella grande città: è lì che c'è lavoro, anche se non ci sono fabbriche. Non sa ancora cosa farà. Chiede allo studente che tipo di ingegnere sarà e cosa farà quando arriva. Il giovane si ferma ma i suoi occhi continuano a viaggiare, e tra due ticchettii dei binari tre ragazzi si concedono per un attimo i loro dubbi e un po' di mistero. Dovrà lavorare sodo, dice lo studente, e annuiamo, uomini di nuovo. Condividono con me le loro borracce di tè e facciamo girare un sacchetto di noci e frutta secca. Chiudo gli occhi e sento il treno che fa le sue curve da una parte all'altra. Mi sembra di sentire il battito di un tamburo, e apro gli occhi con un sussulto nel momento in cui mi cade la testa. I due volti di fronte sono inclinati l'uno verso l'altro, bocche aperte, i tratti del viso morbidi nella prima luce, nuvole rugose.

Mi rannicchio nel sedile, tirando la stanca tenda per appoggiarvi la testa e guardare il paesaggio ritirarsi. Il percorso è sinuoso. La coda del treno entra e esce dalla mia visuale mentre saliamo una valle per poi scendere in un'altra. L'ingegnere aveva raccontato una vecchia barzelletta in merito alla ferrovia – che i costruttori furono pagati a miglio – ma resta un'opera di grande bellezza, e la sua delicata esplorazione della terra, tracciando ogni contorno attraverso una serie di ampie curve, apre una sorta di dialogo che aiuta a dare significato alla topografia lunare, un modo per leggere le sue onde sconfinate cosicché appaiono nude piuttosto che desolate.

Qualche luce albeggia, quieta, e sotto le coltri grigie trapelano dei colori tenui, ondulazioni cremose di erba secca interrotte da striature esotiche di roccia esposta dove la terra è franata, vene di marrone, malva, livido blu, argento. Le montagne megattere più alte sono spolverate di neve fresca, e sopra vedo delle ali larghe stagliate, uccelli rapaci che migrano nella direzione opposta, troppo alti per essere identificati. Voglio indicare, esprimere il mio stupore, sopraffatto all'improvviso dal bisogno di condividere, ma ancor prima che siano fuori dalla vista sono colto invece da tutto un altro panorama. Giù nella valle una serie di linee rette svettano dalla terra, fiduciose, sfidando il paesaggio anziché conversare. Siamo ancora a più di un'ora dalla nostra destinazione, ma già dei palazzoni iniziano a spuntare a caso laddove il terreno è abbastanza piatto. Stanno in fila, come lapidi nel fango, occupando quei pochi posti dove la terra si era raccolta, l'aratro sostituito dallo scavatore. La città è in arrivo.

Sarà questa la crescita, questo il lavoro. Ma, avvicinandoci alle strutture, la stranezza del loro aspetto si intensifica: sono torri allucinatorie; incompiute, paiono per la maggior parte abbandonate. C'è poco segno di quel lavoro. Deve essere una periferia del regno di boom e bust, crescita e crisi, questi i primi satelliti dell'avidità che ci attende, una distante speculazione della speculazione. Passiamo sotto due immensi pilastri di cemento, alti come i colli circostanti, che danno inizio a un nuovo ponte per una nuova autostrada senza scali, diretta da una città all'altra, una sopraelevata. Le acque fangose del fiume scorrono veloci giù in fondo.

In questa nuova terra di prossimità sono innumerevoli i cumuli di materiale per cui non c'è spazio nella città stessa. Ci sono mucchi di sabbia e mucchi di ghiaia, mucchi di rottami e mucchi di tubi, elettrodomestici, porte d'auto e massicciata varia. Sono più o meno della stessa dimensione, circa quello che un furgone riesce a trasportare, e occupano angoli discreti lungo una rete sempre più fitta di tracce e strade. Proliferano, e lascio i miei occhi saltare da uno all'altro fra i colori. In mezzo a questi appaiono le prime case improvvisate, costruite in gran parte con ciò che si trova intorno, riappropriazione degli scarti, i mucchi riassemblati in configurazioni sempre più complicate da chi è arrivato con niente. Ognuna è povera e unica, le strutture testimoniano i propri verbi originali – insite le mani nella loro costruzione.

Le case non sono così nuove. Ci sono troppi dettagli e tocchi che possono venire soltanto col tempo. L'esigenza primaria di riparo è diventata qualcosa di più: il tetto adattato per raccogliere acqua, poi esteso per fornire ombra estiva, poi avvitato con qualche gancio per appendere piante con petali luminosi e profumati che magari tengono lontane le mosche.  

Fin qui i versanti sono così ripidi che solo la povertà può permettersi di costruirci sopra. Ma la valle si restringe ancora di più, schiacciando le arterie ferroviarie e stradali che costringono a loro volta il fiume sotto di esse. Per un po' un camion ci affianca alla stessa velocità, offrendomi la possibilità di studiare metà viso dell'autista. Piccoli muscoli disegnano le prime rughe intorno al suo occhio destro, tesi nell'attesa che si accendano le luci dei freni dell'automobile davanti. I suoi tergicristalli strofinano da un lato all'altro, puntando prima a me e poi al cielo, mentre case caserecce continuano ad apparire a sinistra e a destra, ormai coprendo le pendici nelle loro disposizioni casuali. Un fumo nero sale dai camini e rifiuti colorati cadono lungo le rive verso l'acqua canalizzata: un vomito di rosa, giallo e blu nel fango rosso, qualsiasi cosa non possa essere digerita. Da sempre i fiumi hanno lavato via il nostro sporco, ma lo sporco sta cambiando alla svelta. La povertà e l'abitudine riciclano e inventano, e allo stesso tempo rinnegano se stesse nello sprecare e nel buttare via. La fusione forma la periferia della terza città: un paesaggio in divenire.

Il traffico aumenta e nel rallentare delle cose un limo sembra depositarsi nella mia mente, come a formare un grande delta antropologico, la città come un estuario. Siamo arrivati?

            TERZO MOVIMENTO

Il treno si arresta in una stazione periferica, semi-costruita, un'altra frontiera invisibile nella città esponenziale. Tutti hanno le valigie pronte, ma nessuno scende. Il treno aspetta. Io non posso. Scendo sulla banchina vuota e sento subito che è successo qualcosa. Un singolo granello di pioggia mi colpisce il viso e mi lecco le labbra secche. Il treno parte, un nastro trasportatore di facce, e una volta uscito dalla stazione capisco perché non c'è nessuno in giro. L'autostrada romba ma non ci sono voci da soffocare; l'intero quartiere è stato abbandonato. Alla casa più vicina manca la porta e tante sono senza vetri. Altre sono state completamente demolite, il terreno raso al suolo. È come se ci fosse stato un terremoto. L'epicentro sarebbe questa stazione incompiuta: ha portato valore alla terra. Più a valle vedo edifici molto più alti che rimangono ritti e mi faccio strada tra le rovine verso di loro.

Le mie caviglie si contorcono nella cacofonia di ex-significati. Dallo sbriciolare di cemento e slittare di cocci emergono dettagli sparsi: le pennellate di colore che qualcuno aveva scelto e le stampe a motivi geometrici, i cardini del cancello e gli attaccapanni. Tra i denti di legno scheggiato ci sono alcuni oggetti dimenticati, e man mano che cade la pioggia si materializzano sempre di più, brillando mentre le macerie si scuriscono. La gente se n'è andata di fretta. Due poltrone esaminano i danni, l'interno all'esterno, la tappezzeria scrostata negli elementi. Mi siedo su una e stabilisco un contatto visivo con due cani che stanno seguendo i miei progressi da un balcone in crollo. Sono appollaiati in posizione eretta, statuari, le orecchie tese, a guardia di un regno caduto, apparentemente gli unici animali ad aver conservato un senso di appartenenza in questo paesaggio scorrevole. 'Terracane', mormoro. Un orecchio si gira. I fili penzolano dai due pali telegrafici che ci collegano. Mi sottometto e proseguo.

Salendo ancora tra i detriti mi imbatto in una lapide, non scolpita, il suo nome scarabocchiato in vernice bianca. Non ci sono date. Resta precaria, salvata per il momento dalla sua posizione un po' riparata in un angolo. Mi sento un po' alto di fronte a essa e mi chino, scusandomi. Non posso fare a meno di immaginare il momento in cui la famiglia ha scelto un posto di fronte alla casa, non potendo riportare il corpo dov'era nato. Immagino il cimitero curato del borgo dove io non sarò sepolto, i cipressi e le ossa lì sotto, e ricordo che una volta seppellivamo i nostri cari in posizione fetale. Da qualche parte un gallo grida sopra il frastuono vuoto. Qualcuno ci vive ancora.

In effetti, comincio a vedere corpi silenziosi che rovistano metodicamente tra le macerie, alla ricerca di metallo di scarto o qualche altro materiale da poter vendere. Anche quello di poco valore vale un poco per qualcuno. Osservo da lontano mentre dita delicate setacciano ciò che è stato cancellato. Ho la sensazione che altri tempi e altri luoghi siano presenti, come se tutte le rocce avessero lo stesso peso. Al contrario, forse in compenso, un altro ragazzo sta facendo più rumore possibile, un'ostinata rivendicazione dell'esistenza. Sta strappando assi di legno da un tetto caduto e spezzandole in due con un colpo feroce del piede. Legna da ardere, indovino. Indovino che abbiamo la stessa età. Gli faccio un cenno di saluto, ma lascia ricadere i capelli sugli occhi, ignorandomi per spezzarne un'altra con un schiocco che attraversa entrambi i nostri corpi. 

Mi volto per andarmene, nel tentativo di dimostrare rispetto, poi però mi fermo: quale consolazione offrirebbe la mia scomparsa? Mi accovaccio e spingo una lastra di cemento sul suo fianco fino a farla stare in piedi. Poi, uno alla volta, metto in equilibrio una serie di mattoni rotti su di essa, affinché un semplice ometto si erga precario, segnando il mio cammino aleatorio.  Prendo una bottiglia di vetro, mezza piena di acqua piovana, e la appoggio con cura sulla cima. So che la marea spazzerà via tutto insieme alle lapidi – che non c'è nulla da fare se non recuperare un po' di legna per i freddi giorni a venire – ma prima di allora la bottiglia cadrà per esprimere una piccola risposta ai colpi di uno sconosciuto. 

Arrivo infine sotto sette nuovi palazzoni, venti piani, ognuno perfettamente identico all'altro. Lungo il fianco di uno pende un gigantesco striscione 'in vendita'. La pioggia rimbalza sull'asfalto fresco che li collega ai lavori che potrebbero pagare gli acconti. I pinnacoli sfumano tra le nuvole, ma per quanto lisci i loro lati scivolino nel cielo umido, mi sorprende vedere che le ruvide macerie ai loro piedi siano state soltanto spianate anziché ripulite, le nuove case semplicemente accatastate sopra quelle vecchie. Tra le strade rimane un'isola di macerie, segnata da tre alberi, croci su una collinetta, e noto che una baracca è stata costruita discretamente tra la sua vegetazione spontanea. Fissando questa scena inverosimile, mi rendo conto che c'è un vecchio che la anima, tentando invano di sollevare una tavola sul suo tetto improvvisato, e corro ad aiutarlo per alzarla. Mi guarda incredulo, prendendomi per un pazzo, ma accetta l'aiuto, e riusciamo a posizionare la tavola e appuntare i teli sottostanti per rallentare la perdita. Gli porgo la mano e la stringe debolmente prima di ritirarsi di nuovo nella baracca. Guardo in alto tra le piogge a tutte le indistinguibili finestre a doppio vetro, prima di fuggire in cerca di riparo.

L'asfalto mi porta giù verso altri palazzoni già abitati che sovrastano banchi di pegni e chioschi fast food dove carne compressa gira sotto altre suggestioni al neon. La valle ormai è diventata una strozzatura che amplifica il rumore del traffico in un collo di bottiglia, ma vedo che più avanti le pendici si allentano e aprono sulla città vera e propria – questa è la porta. Da un lato una serie di effigi di soldati brandiscono la bandiera nazionale sotto un'aquila monumentale, dall'altro un nuovo ristorante panoramico si affaccia a forma di mulino a vento. Qui le prime case sono state demolite per creare un parco funicolare, decorato con arbusti uniformi e capre bianche di plastica. Non si torna più indietro.


Rimango negli scarponi a guardare il letto, un laccio slacciato. Sono stremato, ma per qualche motivo la possibilità di fermarmi mi paralizza. L'ordine pulito della camera non si sposa affatto con la mia giornata, né con il mondo esterno, come un punto a una frase che non può finire. Ho bisogno di bere o di qualcosa, di tutto fuorché fermarmi. Sono invecchiato ancora, inevitabilmente, e mi volto di nuovo verso la discoteca di luci delle strade bagnate.

Passo diversi bar, incerto su come scegliere quando tutti sono più o meno uguali. Alla fine scelgo quello che suona la canzone che riconosco. Al tavolo accanto studio la schiena di uno che ne ha già bevuti alcuni. Si pettina i capelli radi con le dita e si accende un'altra sigaretta, aspettando, agitandosi, solo. È un lunedì. Il poliestere del suo abito blu brilla un po' mentre si sgualcisce di movimenti impazienti. Considero l'idea di iniziare una conversazione – siamo gli unici due da soli in un bar altrimenti affollato – ma quando ordino titubante mi batte sul tempo, cogliendo al volo l'opportunità creata dal mio accento. Si lancia a capofitto su nomi, nazioni, stereotipi, squadre di calcio, i migliori attori, il peggior cibo, i vari tipi di capelli, finché non si frena d'improvviso e dice di essere stanco, 'stanco di tutto', e si reclina per guardarmi bene e espirare del fumo. Fa il manager, dice: 'sono stanco di maneggiare.' 

Mi racconta di un suo amico che è andato a vivere dall'altra parte del pianeta, in una delle città più grandi del mondo. Lì ha trovato una moglie, un altro tipo di capelli, 'del tutto diversa, tutto bene'. Forse dovrebbe fare lo stesso, dice, ma ammette che in realtà non gli piace la vita di città. 'Vengo da un piccolo paese, quasi un villaggio!' Mi accorgo che gli altri tavoli più giovani ci osservano, sogghignando per i suoi rumorosi tentativi di parlare la mia lingua, domandandosi forse perché tollero la compagnia di quest'uomo ubriaco. Gli chiedo del suo paese natale e se magari non potrebbe tornarci se lì si trovava bene? Sorride mestamente senza bisogno di scuotere la testa: 'la scimmia ha aperto gli occhi.' Come a un segnale, il suo telefono squilla. Risponde ad alta voce con un grande gesto del braccio, maneggiando ancora.

'È un'amica', dice, 'un'altra manager – anche lei odia il suo lavoro!' Implora che abbandoniamo le nostre birre per raggiungerla a un concerto, 'è tutta sola', e ci affrettiamo lungo la strada verso l'altro bar. Lì troviamo un gruppo rock e una ventina di persone ai tavoli che cantano insieme alle vecchie canzoni di perdita. Sono tutti già ubriachi, soprattutto la sua amica, ma il suo viso si illumina quando sente da quale isola provengo e mi chiede subito della principessa morta. 'La amo!' esclama, con le mani sul cuore, 'buona signora, molto buona – molto, molto molto buona signora!' ma lascia cadere la testa senza attendere una risposta. Quando ordiniamo un giro, dice di non poterne più e chiede un tè.

Il gruppo continua a suonare con stanca dedizione, eseguendo i brani richiesti da scarabocchi scritti sui tovaglioli. È soprattutto rumoroso, il che permette a tutti di gridare le famose parole senza imbarazzo. Il ritmo industriale del rullante offre garanzia e i piatti che si infrangono danno la possibilità di dare pugni all'aria. Non ci sono nuove canzoni. Mi chiedo se la nostalgia ricordi un'epoca specifica in cui le cose erano diverse, o se sia semplicemente un richiamo alla gioventù?

La canzone successiva ridesta tutti in piedi. È più lenta, il ritmo meno meccanico, e le braccia ondeggiano sopra le teste finché non balliamo, uniti insieme sebbene le nostre menti siano tutte altrove, ricordando luoghi diversi. Noto la cravatta arruffata del mio amico e il fango sui miei scarponi. I corpi girano. Un calice si fracassa lungo il pavimento. Sarà questa l'ultima canzone? Con la coda dell'occhio vedo la donna fermarsi e portare la tazza vuota alla bocca per poi, come all'inverso, rimetterci il tè. La ripone sul tavolo, con cautela, e sembra solo un po' sorpresa, forse più per non aver rovesciato nemmeno una goccia. Nessun altro sembra accorgersene e, non volendola mettere in imbarazzo, faccio finta di non aver visto neanche io. Ma proprio mentre tutti si abbandonano alla breve estasi del crescendo finale, lei prende il cappotto e se ne va senza una parola, e non posso fare a meno di pentirmi della mia decisione.

Allontanandoci dopo, l'uomo borbotta di abitare lontano, in una zona periferica, e chiede se potrebbe alloggiare nel mio albergo. Gli dico che ci sono numerose camere disponibili, ma diventa chiaro che vorrebbe stare nella mia, con me. Mi ripete di essere stanco, ancora e ancora, e infine ammette di voler stare vicino a me. Rifiuto gentilmente e gli chiamo un tassì. Gli dico che non c'è nessun problema e propongo di vederci il giorno dopo in un altro modo, ma lui sembra sentirsi in imbarazzo e non mi guarda né mi parla più. Alzo la mano per salutarlo ma il tassì parte nella notte senza che lui si volti.


3. Bang


"... Stavolta sono un cavallo e un carretto a interrompere il nostro progresso e l'autobus scatta a sinistra per sorpassare. Guardo i muscoli della povera bestia incresparsi mentre tira in salita contro il vento contrario, piegando il tempo intorno al suo corpo, la sua criniera scintilla nella luce polverosa del basso sole. Dall'interno dei gusci metallici altri clacson risuonano la fretta e il fastidio: la lotta incivile non appartiene alla città. Non siamo più i contadini di prima. Non viviamo più in un presente infinito con un vasto passato, bensì in un presente istantaneo con un vasto futuro. Il futuro si dilata da noi, e con esso le nostre speranze e desideri. La stabilità appartiene a una logica superata; l'esplosione sarà la nuova misura delle cose. La politica è sconvolgimento, l'economia crescita esponenziale e la storia un big bang – un'espansione frantumante di miracoli ..."

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Nel mio piccolo pesante cranio sento che c'è di più di quanto lo spazio permetta, i miei pensieri premono sodo contro le loro pareti – la notte precedente mi rimbomba dentro ancora. Mi sono risvegliato in un'esplosione, un pistone in un motore, metallo su metallo, sette corsie di traffico in una direzione e sette nell'altra, le esplosioni a petrolio che mi portano più in fondo nella città che continua a esplodere, premendo sodo contro le sue coste cementate mentre il mio corpo vibra alle frequenze che accompagnano ogni ricordo d'infanzia, l'onnipresente ronzio della strada. 

L'autobus sobbalza e sibila fra le pubblicità. Il traffico arranca in conati. Davanti a me un ragazzo sta imparando le nuove parole di cui spera di aver bisogno, una lingua internazionale per una città globale, e dall'altoparlante del suo telefono una sintetica voce femminile pronuncia ogni parola due volte con una pausa tale che lui possa ripetere: '… baby … baby … share … share … breast … breast … thin … thin … screw … screw … cheerful … cheerful … forgive … forgive … erection … erection … chemistry … chemistry … hairy … hairy … semen … semen … boot … boot … ready … ready … suck … suck … reach … reach … wet … wet … message … message … oral … oral … break-up … break-up …' Fissa le parole che appaiono sullo schermo in grembo, il collo chino, ma rimane muto, ogni pausa pregnante. Freniamo di nuovo; le automobili dietro suonano il clacson.

Stavolta sono un cavallo e un carretto a interrompere il nostro progresso e l'autobus scatta a sinistra per sorpassare. Guardo i muscoli della povera bestia incresparsi mentre tira in salita contro il vento contrario, piegando il tempo intorno al suo corpo, la sua criniera scintilla nella luce polverosa del basso sole. Dall'interno dei gusci metallici altri clacson risuonano la fretta e il fastidio: la lotta incivile non appartiene alla città.

Non siamo più i contadini di prima. Non viviamo più in un presente infinito con un vasto passato, bensì in un presente istantaneo con un vasto futuro. Il futuro si dilata da noi, e con esso le nostre speranze e desideri. La stabilità appartiene a una logica superata; l'esplosione sarà la nuova misura delle cose. La politica è sconvolgimento, l'economia crescita esponenziale e la storia un big bang – un'espansione frantumante di miracoli. Ci sarà sempre più di tutto: per i vincitori, per i fortunati, per quelli abbastanza svegli da sapere dove sono i soldi. Sul ciglio della strada vedo lunghe code per la lotteria e immagino gli oceani chimici di grano, mais e girasoli in cui non serve più strappare erbacce. Vedo la famosa statua che s'innalza all'orizzonte, la sua fiamma di libertà che chiama tutti coloro che salpano affamati. 

Il viaggio comporta un nuovo senso di distanza ora che ognuno si allontana dall'altro per sognare i propri sogni, ora che ogni vita è distinta, libera e frammentaria in un universo in espansione. E tuttavia ci ritroviamo qui, nella stessa megalopoli – non abbiamo mai vissuto così vicini. Raggiungiamo la cresta della prossima onda e vedo la strada distendersi davanti a noi, vertiginosa. I tettucci delle automobili brillano come le squame di un serpente, stretti gli uni contro gli altri. Può un sogno individuale sopravvivere alla collisione con così tanti altri? O rimarremo tutti a sognare una macchina migliore?

Questa città è costruita su promesse ed è costruita su riflessi, ogni promessa è il riflesso di un'altra. Le sue torri torreggiano in vetro, ognuna più alta dell'altra, e riflettono il cielo azzurro a chi sta sotto. Puoi vedere il tuo viso sulle loro superfici e chiederti cosa c'è dentro – com'è la vista da sopra? Dalla finestra sporca dell'autobus ammiro quella più alta di tutte, col suo superattico stravagante in oro, ma mi viene in mente che sarà l'unica che non possono vedere dalla loro finestra.

Il cielo si accende di fuoco, i cartelloni di lampadine, e finalmente la strada scende alla grande vasca di Narciso nel cuore della città. Il tramonto è spettacolare: sopra le sponde della città il fitto inquinamento inarca caldi rossi e gialli che pian piano cedono a luminosi verdi e viola finché il cielo non si spegne in un lungo crepuscolo. La superficie scura dell'acqua luccica con freddezza, riflettendo i bei colori della città circostante. 

Sotto lo spettacolo, fuori dalla vista, le correnti sottomarine sono forti. Qui i fiumi del nord defluiscono, risucchiando i mari salati del sud nell'altra direzione. È un incontro ignoto, il confronto tra oriente e occidente preferito per la sua cospicua drammaticità, le invasioni, le capitolazioni, le epiche esplosioni dei cannoni – le due parti in deriva tettonica. Fra i pescatori sbircio nell'acqua torbida oltre le luci oleose e riesco appena a distinguere le convulsioni gemelle di una medusa e una borsa di plastica. Ansimano all'unisono. Mi volto nella folla per andare a compiere la mia traversata per la sponda occidentale, ma non prima di intravedere un cane di strada immoto. Si trova lì, in mezzo a tutto, accucciato e addormentato, fra i piccioni e i gabbiani e le centinaia di pendolari che si intersecano sul selciato a scacchi, la sua sporca pelliccia grigia illuminata dai colori tremolanti dello schermo grande che proietta le sanguinose battaglie dell'ultima serie televisiva.

Il traghetto stesso è assordante, palpitante nel suo incedere tra navi da carico e da crociera, petroliere e yacht di lusso. Eppure, nonostante il fragore del gasolio, in questa vasta radura c'è una sorta di tranquillità, come l'occhio liquido di una tempesta. Inspiro un fiato profondo, girandomi per cogliere tutto da questa distanza protettiva, un po' più composto nel varco. L'aria umida si raffredda e sento scorrere il primo brivido lungo la mia schiena. Due ragazze adolescenti stanno dall'altro lato del ponte senza giacca, i loro jeans strappati, figlie della città. Sfruttano il vento per soffiare i capelli all'indietro mentre mimano canzoni pop ai loro telefoni, rendendo le luci brillanti della città uno sfondo pixelato che scorre sugli schermi di chi clicca 'sì' da qualche altra parte. Live streaming. Si sono posizionate a poppa della barca davanti alla loro bandiera. Sbatte forte, rossa come il loro rossetto.

La megalopoli continua a dispiegarsi man mano che si rivela, esponendo sedimenti umani a perdita d'occhio. È impressionante. Un film finirebbe con un bacio importante dopo la grande esplosione conclusiva che brucia il budget, ma questo non è un film – la vita non è una storia – e in qualche modo le cose devono continuare a esplodere. Il traghetto attracca al molo.

Non c'è alcuno sconcerto? Ci adattiamo così prontamente? Salendo le strade verso la piazza maggiore esamino i volti per vedere se veramente nessuno batte ciglio. Ma se le nostre espressioni non sembrano tradire una preoccupazione, lo fanno i luoghi che abitiamo: quando arrivo alla piazza quel battere è palpabile, manifesto nelle varie rassicurazioni simboliche di certezza, sicurezza e salvezza con cui identificarci mentre tutto cambia dintorno. Eccolo nelle lunghe file per le stesse catene di cappuccino e hamburger, le famose insegne verdi e rosse che garantiscono lo stesso sapore ovunque ci troviamo; eccolo nelle migliaia di bandiere semplici che ci posizionano in qualche posto nominabile; eccolo nelle armi automatiche dei soldati giovani che puntano a qualcun'altro; eccolo nella costruzione di un altro enorme luogo di culto al culmine del viale principale dello shopping, il vuoto guscio di cemento incompiuto sotto fieri riflettori.

La piazza è un gran viavai e non un posto dove fermarsi, così seguo a intuito dove gravita la folla. Si incanala in una gola di vetrine, un fuggi fuggi al rallentatore tra i marchi e i manichini senza testa, le nostre facce illuminate da tutto ciò che potremmo comprare, da tutto ciò che potremmo riconoscere. Sono sicuro di essere già stato qua, ma è sempre meno chiaro dove sia.

Ma proprio qui è stato, un paio di anni fa, che davanti a negozi familiari di vestiti usa e getta, un uomo ha provato ad apparire per disperazione, facendosi esplodere con chiodi e schegge, uccidendo e mutilando chi si trovava lì per caso: persone che non aveva mai conosciuto; persone provenienti da tutto il mondo. Nulla segna il posto.

II

I M P R O N T E  S P O R C H E

E X S C A P E


4. Runway


"... Scappo. Atterrando di corsa, i miei piedi battono al suolo, facendosi strada, cruna dopo cruna, in una folla di aghi. Passo scaffali di cartoline – viste sature di una città senza gente – e tappeti magici che potrebbero essere spediti ovunque nel mondo, se solo avessi i soldi. In fondo alla collina gli autobus stridono, le finestre appannate, i passeggeri stretti gli uni contro gli altri per ritornare a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Prendo un ponte con il traffico e cominciamo la prossima ascesa, infiliandoci fra le arcate di un antico acquedotto. Tre uomini si rifugiano sotto i suoi mattoni. Hanno acceso un fuoco per riscaldare la loro notte: le fiamme leccate di verde; bruciano rifiuti ..."

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Scappo.

Atterrando di corsa, i miei piedi battono al suolo, facendosi strada, cruna dopo cruna, in una folla di aghi. Passo scaffali di cartoline – viste sature di una città senza gente – e tappeti magici che potrebbero essere spediti ovunque nel mondo, se solo avessi i soldi. In fondo alla collina gli autobus stridono, le finestre appannate, i passeggeri stretti gli uni contro gli altri per ritornare a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Prendo un ponte con il traffico e cominciamo la prossima ascesa, infiliandoci fra le arcate di un antico acquedotto. Tre uomini si rifugiano sotto i suoi mattoni. Hanno acceso un fuoco per riscaldare la loro notte: le fiamme leccate di verde; bruciano rifiuti. 

Continuo a spingermi a ovest, sotto bui cavalcavia e cantieri multipiano illuminati a giorno, oltre muri in rovina fatiscenti e fontane di marmo inaridite da tempo. Le strade si allargano, il traffico accelera, e diventa più difficile mantenere il mio orientamento; non sembra esserci un posto dove attraversare questi nuovi fiumi. Seguendo l'argine, vedo corpi emergere dall'ombra per arrischiarsi tra i fari, le facce lampeggianti mentre sfrecciano a metà strada verso lo spartitraffico. Mi lancio per raggiungerli ma, quando scavalco le barriere, loro sono già oltre. Ho perso l'occasione e rimango lì con le dita dei piedi oltre il bordo per un tuffo che ho perso il coraggio di fare, intrappolato tra le due correnti. Non c'è altro da fare che intraprendere la traversata corsia per corsia; mi dico che dietro ogni scuro parabrezza c'è un autista che mi vede, un autista con la propria vita, le proprie gambe e la propria storia. Mi sono arrampicato sull'altro ciglio prima di accorgermi che trattengo ancora il fiato. Sono in una grande piazzola di fresco asfalto e mi giro sorpreso dall'improvvisa libertà diagonale offerta da questa inedita distesa di nero. Le frecce rigorose e gli stretti rettangoli bianchi che definiranno il parcheggio sono tuttora da dipingere. Appartiene al prossimo centro commerciale, l'ultima di una serie di strutture colossali che convertono in destinazione ogni crocevia nodale della città drive-thru, punti di riferimento con cui navigare. 

Tra questi incroci incessanti ci sono palazzi alti di porte chiuse, la garanzia della chiave – pace e privacy, sollievo pulito. I più recenti sono gated e circondati da filo spinato. Telecamere assistono al mio passaggio in scala di grigi e sento i pochi pixel della mia faccia scomparire da un'inquadratura per riapparire in un'altra, finché non valico il quartiere benestante per uno più povero. Un supermercato segna la soglia, germi convergenti su carrelli, nastri trasportatori e maniglie dei frigoriferi. Fuori qualcuno sta frugando nei bidoni. Le strade sono più tranquille; per la prima volta sento il mio passo.

La notte si consuma e le piante dei miei piedi si arricciano stanche, ma ancora non mi arresto. La città nemmeno. I marciapiedi vanno e vengono, i lampioni sfarfallano. Comincio a perdere la cognizione di ciò che passo, il pilota automatico prende il sopravvento e cammino alla cieca. È il vasto perimetro di un aeroporto che finalmente interrompe la mia traiettoria e restituisce le immagini. La città deve finire da qualche parte, ricordo, perché un altro aeroporto è appena stato inaugurato da qualche parte, persino oltre i quartieri più remoti: hanno disboscato una foresta; ho cliccato sulla storia. Una volta terminato, quello nuovo dovrà essere il più grande del mondo, indicativo dell'esigenza di riconoscimento che si avverte da questa parte della frontiera. Circumnavigando l'aeroporto originale mi rendo conto che nel misurare le dimensioni della città mi sfugge il punto: le città mondiali del futuro saranno definite dal movimento, dal portare delle persone piuttosto che dall'ospitarle. Il nuovo aeroporto sarà il più grande non perché abbia sei piste, ma perché gestirà duecento milioni di passeggeri all'anno.

La mia deviazione verso sud mi porta sui semplici binari della vecchia ferrovia 'Express', costruita in un'epoca di collegamenti più lenti. Ascolto una vibrazione. Solo un treno al giorno segue ancora il famoso percorso verso l'occidente e se ne va sotto la copertura della notte, lasciandosi alle spalle tutti coloro cui è vietato fare lo stesso. Ormai il treno di stanotte sarà già controllato a fondo e inviato a rotolare oltre la frontiera nelle terre chiuse. Lo pedino attraverso le periferie e non posso fare a meno di rialzare lo sguardo verso le finestre: so che dietro alcune ci sono persone nascoste. Diventa troppo pericoloso per strada. Un voto si è perso e un'elezione si deve vincere. I documenti saranno rifiutati e chi ne è sprovvisto viene rispedito alle guerre. Sto passando davanti a storie che leggevo da ragazzo, le mani in tasca, e accelero di nuovo mentre immagino una ragazza che scrive nel suo diario.


Una nebbia s'insinua dall'acqua, come se il mare stesse strisciando in città. Alte gru scaricano torri marine in pile per terra e le navi emergono lentamente dall'acqua, sgravate. Lo sferragliare dei container si smorza nell'umida aria su onde a bassa frequenza che si sprigionano dalla raffineria, e a poco a poco la notte si alza.

Oltre il porto mi tengo più vicino alla costa. La prima luce è diffusa, un seppia nebbioso, e sento il mare prima di vederlo. Diversi sviluppi balneari si cimentano nella solita alchimia sabbiosa, ma gran parte dei lavori sembrano dormienti; sfrutto buchi nei recinti tagliati molto prima del mio sconfinamento. Alcune ville hanno già il tetto, altre sono poco più della prima pianta di cemento, zampilli statici di ferro arrugginito che segnano gli angoli. Uno dei grandi appezzamenti è stato spianato e ricoperto di ghiaia, ma abbandonato prima che il cemento fosse versato, e dal campo grigio ora cresce la camomilla. Mi arriva fino alla coscia e poi, sfiorandola, al naso. Mi fermo un attimo ad assaporarla. La nebbia si dirada. Un airone mi fissa. Piove. Le gocce cadono dal suo becco e dalla sua coda, ma non vacilla il suo sguardo. Nemmeno io mi muovo: noi due, bagnati fradici, sulle nostre lunghe gambe, le spalle curve. L'incontro ha spezzato la marcia e lascio che la stanchezza mi pervada, ringraziando l'uccello con i piedi per terra: 'farewell'. 

Con passo più morbido seguo tracce fino a una strada incompiuta, che a sua volta mi porta a un lungomare di là da venire. La breve passeggiata di palme e cestini finisce bruscamente in un groviglio di cespugli e mi arrampico sulle rocce per scendere alla spiaggia stessa. Che differenza sotto i piedi! I lisci ciottoli bagnati scivolano e scricchiolano l'uno contro l'altro e godo della sensazione, nonostante la difficoltà a calpestarli con questi polpacci infiammati. Allargo le mie braccia e immagino l'apertura alare dell'airone.

Sono poche le gocce che ricadono ancora nell'acqua, ma il freddo è pungente e pizzica il viso, quindi mi sorprendo di vedere qualcun altro camminare più avanti. Andiamo entrambi nella stessa direzione, ma chiunque sia vira a zigzag e continua a fermarsi e chinarsi in modo tale che lentamente lo raggiungo. Ormai vedo che sta raccogliendo dei sassi in un sacchetto di plastica e chiamo un saluto di cortesia. Un uomo rugoso di cui non riesco a indovinare l'età mi risponde con un sorriso di sorpresa e si avvicina per stringere la mano.

Fatichiamo a capirci in lingue diverse fra le onde che s'infrangono, ma raccolgo delle parole preziose dalle tante che mi offre. Lui punteggia le sue frasi con qualche parola che conosce della mia lingua: 'boat'; 'fish'; 'good'. Ho già capito quanto ama il mare e che ha lavorato tutta la vita come pescatore, ma quello che vuole davvero comunicare lo tenta in entrambe le lingue con le braccia spalancate: 'big boat … big … radar … RA-DAR!' e gesticola con un braccio che inghiotte tutto in una spirale sempre più stretta. 'No more fish', dico. 'No fish', ripete, e i suoi occhi tempestosi si calmano ora che ho capito. Indico i miei occhi e il suo sacchetto, e lui lo apre volentieri per farmi vedere. I sassi sono tutti diversi, per dimensioni, consistenza e colore, ma ognuno è perfettamente tondo. Annuisco la mia ammirazione e ci auguriamo una buona giornata prima di lasciarci. 

La spiaggia termina ma una strada continua e gradualmente il rombo delle onde si confonde con il rombo della tangenziale che ritorna, le auto e i camion che spruzzano l'acqua piovana in aria, ancora e ancora. Altri capannoni. Nuovi palazzoni. Mi arrendo: non riuscirò mai a raggiungere la fine della città. C'è un distributore di benzina con un bar e, come se premessi il pulsante dell'eiettore, entro nel suo tepore per un caffè. La radio trasmette una canzone che conosco da sempre. Per un attimo i miei occhi si lasciano andare. Altrove. Dovunque. Dovunque io sia mai stato. 'Da dove vieni?', un volto gentile mi chiede, atterrando il mio volo. Rispondo che sto cercando cos'è casa.


L'uomo si siede e versa due bustine di zucchero nel suo tè. Lo mescola, studiandomi, in attesa che il ragazzo mi porti il secondo caffè. I granelli di zucchero si sciolgono insieme alla seconda città. 'Casa!' Schiocca la lingua contro il palato. 'Casa...' Si sofferma di nuovo e chiede se parlo un'altra delle lingue occidentali. Siamo fortunati. Tiene la voce abbassata comunque. 'Ufficialmente sono nato qua in questo Paese, ma non da questa parte, nell'est... È un popolo diverso, una cultura diversa – una cultura senza Paese, capisci? Come se io venissi da un posto che non esiste...' Sul suo volto c'è rassegnazione, ma i suoi occhi non lasciano i miei nemmeno un secondo – la terza volta stamattina – e non ho bisogno di annuire o trovare parole per dimostrare che sto ascoltando. 

Mi spiega che i suoi genitori parlavano una lingua diversa da quella che sentiva a scuola e in televisione, e che in televisione si parlava di loro come di un problema. C'è ancora una forte presenza militare. Ci sono controlli. A volte ci sono attacchi. Teneva bassa la testa e si teneva lontano dai guai, ma è cresciuto comunque con l'idea di non appartenere al Paese in cui è nato. 'Ci trattano di merda, come criminali; ci terrorizzano e ci chiamano terroristi. Alla fine me ne sono andato. Che si può fare? Ma pensa a questo: adesso vivo in un altro Paese dove mi trattano di merda perché per loro appartengo a questo!' Ridacchia per l'ironia. Il modo in cui gli altri lo definiscono è capovolto ma rimane sempre lo stesso. 'Mi chiamano con un nome qua e con un altro nome là, ma alla fine sono sempre straniero – non appartengo da nessuna parte.' Guarda fuori all'autostrada. 'Forse sarà per questo che guido i camion.' Gli chiedo quale nome gli abbia dato sua madre. Mi chiede da che parte sto andando.

Non sono mai stato in un camion e mi inerpico nella cabina con la stessa grazia con cui sarei montato su un cavallo. È strano essere così elevato; mi sento sia alto che piccolo allo stesso tempo. Mi aggrappo a ciò che mi circonda per orientarmi – la leva del cambio allampanata tra i due sedili e il letto singolo incastrato dietro – ma, come un bambino nel garage del nonno, vedo soprattutto dettagli personali che posso associare alla persona accanto: il supporto improvvisato che tiene due grandi taniche di tè; gli elastici multicolori che mettono in ordine i vari cavi di ricarica; il motivo delle rose sulla trapunta. A dividere l'ampio parabrezza c'è un pezzo di stoffa ricamata con nappe, una mezzaluna e una stella sospese sulla lunga strada da percorrere. L'autista si accorge che guardo e mi rivela, con fare cospiratorio, un crocifisso a LED che tiene nascosto: 'per l'altra parte.'

Mi racconta che qualche anno fa ha dato molti passaggi, quando i primi rifugiati cominciavano a camminare lungo il ciglio dell'autostrada, 'prima che divenisse una follia.' Ci immettiamo nel traffico e il camion stracarico inizia una lunga salita – posso quasi sentire il peso dietro di noi. 'Solo fino al confine, chiaramente, niente in più', continua, 'ma dopo un po' erano così tanti... Sembrava impossibile aiutare. C'erano famiglie, bambini... Che disperazione. Ti faceva piangere il cuore.' Sterziamo per sorpassare un camion più lento. 'Ora non si vede quasi più nessuno. Ora è tutto chiuso, nascosto. Ora è un business. Ora li lasciano annegare.' Non posso fare a meno di pensare al camion nelle notizie. Come se legga il mio pensiero, mi chiede sottovoce se ho visto in televisione: decine di persone trovate soffocate nei frigoriferi di un camion, nel tentativo di passare la frontiera. Borbotta una preghiera. Il cielo s'indurisce, alto e pesante sopra di noi. 

Continuiamo in silenzio su e giù per le colline brulle, immagini che inondano l'assenza. Immagini sullo schermo. Immagini schermate. La mia mente scorre con loro: a chi appartengono? Di chi è la storia?


Pochi secondi dopo sono poche ore dopo e i primi fiocchi di neve stanno cadendo; non so da quanto mi sono assopito. Il traffico è rallentato e l'autista è impegnato a concentrarsi. Chiedo come proseguirà il suo viaggio, ma dice che di solito riescono a tenere aperte le autostrade con gli spazzaneve e tutto il sale che si può spargere – tutto il possibile per aiutare le merci a passare i confini – l'importante è non lasciare la strada. Ci auguriamo buona fortuna. Mi lascia alla periferia dell'ultima cittadina e va a unirsi alla coda. Io vado a cercare la stazione e il mio biglietto di passaggio.

La neve cade sempre più veloce nel buio, fiocchi che appaiono dalla notte in flebili coni di luce lungo il binario. Per un attimo credo di aver intravisto qualcuno apparire solo per scomparire di nuovo – sandali piuttosto che un volto – ma quando il treno arriva nessun altro sale con me. Stranamente, in effetti, non sembra esserci nessun altro nel mio vagone letto. Spengo la luce dello scompartimento per cancellare il mio riflesso e il treno si avvia verso la frontiera. 

Quasi subito si ferma ancora e devo riscendere per mostrare i documenti mentre entrambi le polizie controllano le carrozze. Siamo in pochi, ma ci vuole non poco tempo: più la pelle è scura, più a lungo studiano la faccia prima di dare il duro timbro di approvazione; la data, il luogo e come abbiamo attraversato il confine inchiostrati sulle pagine che ci identificano. Sono l'ultimo in coda. Il poliziotto mi chiede dove sono diretto. Gli dico il nome della prossima città. Mi chiede da dove vengo. Dico il nome dell'ultima città. 'Turista?' Annuisco la testa. 'Droga?' Scuoto la testa. Mi dà un'ultima occhiata di traverso poi timbra e chiude il passaporto: l'inchiostro si spalma sulla pagina opposta come un'impronta di farfalla, illeggibile.

Ci è consentito di risalire. Le porte sbattono. I termosifoni rantolano al massimo e scottano i sedili, ma non c'è modo di abbassarli o far entrare un po' d'aria: le finestre sono state bloccate. Un forte bussare mi fa sussultare e la porta dello scompartimento apre: il capotreno mi passa un pacco di lenzuola bianche, inamidate e piegate, sigillate nitide in plastica. 

Appoggio il naso al vetro freddo. La neve continua a depositarsi. A sole poche centinaia di metri la stagione delle feste sarà già iniziata e stanotte chi ha un tetto può godere una scena 'Stille Nacht' come nei bei quadretti – semplice, uniforme, incontaminata, sommessa. La neve copre e dona allo stanco paesaggio un'impressione di vergine rinnovamento immacolato; l'agnello bianco può giocare nella bianca neve, la sua nascita rossa sepolta alla vista. Ma essere qui stasera significa immaginare i tre re dell'est e tutti gli altri che sono passati di qua, accampati sotto le stelle con le loro speranze e le loro valigie: essere qui stasera significa chiedere cos'altro si celi sotto la coltre. 

Sebbene la neve nasconda il passato, rivela altresì il presente. Le orme di quelli ancora là fuori ora compaiono, una dopo l'altra, l'impronta irregolare di scarpe spezzate che hanno fatto così tanta strada, e l'impronta chiara di stivali militari in pattuglia notturna. All'improvviso, riflettori intensi illuminano tutto quanto: stiamo bordeggiando il complesso di frontiera dove l'autostrada sosta sotto torri di guardia, telecamere e sensori di calore. La neve soffia e scorgo un vuoto nido di cicogna, fiero e precario in cima a una delle postazioni. Sotto scintilla il filo spinato – l'unica cosa a non trattenere la neve – e corre lungo il confine verso di noi. Questa è EUROPA. Non c'è posto nell'albergo. Ci perdiamo di nuovo nell'oscurità, accelerando.

Il treno mi porterebbe fino a una città con un nome di donna. È stampato sul mio biglietto in semplici vocali sussurrate. Vorrei quel suo conforto familiare, ma so che non ci sarebbe sonno, e decido invece di scendere alla stazione seguente per tornare al confine. Avendolo visto così di sfuggita, mi sento in dovere di vedere bene le barricate, di stare di fronte al muro costruito in mio nome.

Scendo nella mia prima impronta. La neve si increspa di nero e al tungsteno, fitta lungo la banchina. La caduta si arresta, il vento si ferma. Dalla prima carrozza il capotreno mi segnala di risalire e fischia qualche volta, ma volto le spalle e il treno riparte, lasciandomi solo con la mia decisione e i miei sensi. Lo schiocco del freddo mi sveglia. Le mie calde orecchie trillano nello strano silenzio. Sono tornato. Potrei sentirmi ritornato a casa? Tiro su lo zip della giacca fino all'orlo e lascio le lenzuola bianche su una panchina, confezionate ancora. 

Meglio tenere i muscoli al caldo: parto alla svelta in mezzo alla strada deserta, rintracciando la ferrovia nella direzione da cui sono venuto. Lungo i binari ci sono pile e pile di vecchie traversine, smontate e accatastate in obsolescenza. C'è un ultimo lampione e poi svanisco, solo il suono che descrive il mio tragitto.


Non c'è un'alba in quanto tale, ma via via il nero lascia il posto al bianco. Solo i tronchi umidi degli alberi lo rifiutano insieme alla parte inferiore dei loro rami. La frontiera non sarebbe così lontana, ma siccome vorrei evitare i valichi ufficiali, sto cercando un posto appartato, così come chi si trova ancora dall'altra parte. Sono ore che seguo la stessa strada per ondate leggere di campagna, ma finora non ho visto nessuno. 

Le forme di un altro paesino si avvicinano. Ci sono alcune decine di edifici in mattoni ma non c'è fumo ai camini, niente chicchirichì, niente impronte. Almeno metà delle case paiono chiuse da tempo. Tra qui e il confine non c'è altro che campi e alberi: è il primo paesino e l'ultimo, come tanti altri. 

Ma tra gli edifici mi accorgo con sorpresa di essere in compagnia. Alla ricerca di segni di vita mi sono distratto dalle case senza notare l'asino che mi osserva, pelle scura, ventre pallido, legato a un piccolo pilone. Ha già tracciato un cerchio nella neve col raggio della sua catena. Mi avvio per salutarlo, ma si contrae e prende un passo apprensivo indietro; alzo le mani in segno di scusa e arretro per lasciarlo in pace, sperando che non ragli.

La strada mi ha portato fin dove possibile e mi stacco per proseguire lungo il bordo di una macchia di alberi. Sento subito che qualcosa cambia. È la stessa compressione bianca sotto i piedi, ma la strada conosciuta offriva sicurezza, e lasciandola mi rendo conto di non avere un vero motivo per essere qui se qualcuno me lo chiedesse. Costeggio gli alberi a sinistra per uscire dalla vista delle case, chiedendomi se qualcuno, a parte l'asino, mi abbia visto. Alla mia destra c'è un ampio prato aperto e riesco appena a scorgere l'inizio del bosco al di là. Da qualche parte al suo interno, una larga striscia di alberi sono stati abbattuti in una lunga linea arbitraria per un lungo muro assertivo. La striscia calva dovrà essere tagliata ogni anno – gli alberi non smetteranno di spuntare. 

Il prato ha una strana qualità inanimata. Sembra ricoperto da un'unica specie, gambi legnosi che sbucano dalla neve con fulve lingue congelate. Mi accovaccio per guardare meglio. Sono baccelli essiccati, spaccati a rivelare gli ultimi peli setosi che hanno portato il seme altrove. Si chiama 'milkweed' o 'albero della seta', a volte 'canape della siria', 'cotone egiziano' o 'lino d'india' – Asclepias syriaca L – ma in realtà la pianta proviene dal nord occidentale. Prendo un baccello in tasca e passo il dito sulla sua spina dorsale. Consumato il lattice appiccicoso, la pianta sta svernando, la sua linfa sotto terra, e i suoi steli si spezzano mentre li sfioro attraverso il prato. Noto che tra di loro sono sorti anche i primi germogli di alberello: il prato vegeta incolto, inutilizzato, abbandonato.

Mi fermo. Vedo solo ora che sul lato opposto c'è una torre di guardia. Ormai sono proprio nel mezzo del prato e totalmente esposto ma per ora non succede nulla: il fotogramma permane, muto, e guardando la torre mi dico che questa è diversa da quelle di ieri notte al valico. È più bassa, più simile a quelle costruite dai cacciatori per sparare ai cervi. Sono troppo lontano per vedere se c'è qualcuno dentro. Mi convinco che non c'è – non c'è – e continuo senza affrettarmi, provando a mantenere un passo regolare e la schiena dritta, provando a dare l'impressione di non volermi nascondere, di non essere in fuga. 

Provo a indurre la foresta verso di me con tutta la mia volontà, ma il tempo rallenta. Penso ai cervi. Non ho visto impronte. Sono nascosti nel bosco? Non possono mangiare l'albero della seta. Tra pochi anni il prato sarà un bosco. Non possono saltare muri spinati. Dove andranno? Non abbiamo tagliato le nostre radure per muoverci meglio, per liberare il cielo e lasciar entrare la luce, per coltivare e sopravvivere? Dove andremo? L'ambivalenza del bosco mi percorre con tutte le storie d'infanzia con cui sono cresciuto. Pur essendo temibile, il bosco selvaggio protegge il libero arbitrio dalla fredda tirannia dell'autorità centralizzata; la memoria mi spinge tra le braccia scure del suo rifugio aggrovigliato – nel pericolo egualitario dei luoghi senza nome. Sono io il cervo: ho vagato all'aperto, vana speranza, e ora mi ritiro nell'oscurità, anticipando lo sparo, correndo veloce, la sensazione di aver lasciato qualcuno indietro. Resto in attesa, ansimando, solo nel bosco.

Ci vuole un po' prima che il persistente silenzio mi liberi, il sudore umido già raffreddato in fondo alla schiena. Comincio a realizzare ciò che mi circonda, sgusciando fuori dalla mia mente nella boscaglia in cui mi trovo. Ci sono arbusti spinosi con alcune bacche rosate, l'unico colore oltre i miei occhi, e ogni tanto i rami mi cospargono con neve senza preavviso, ma per il resto è tutto statico monocromatico. Quando mi muovo però, si muovono anche gli alberi, intrecciandosi l'uno con l'altro mentre le loro posizioni cambiano rispetto alla mia, i loro gelidi occhi di corteccia ammiccano tramite l'interazione. Nonostante mi sia sentito così vulnerabile all'aperto, il sollievo di questa testimonianza cieca è pure snervante e so che sarei atterrito se dovessi passarci la notte. Un brivido mi attraversa a pensare a tutti i bambini che l'hanno fatto.

Incrocio due tracce di pneumatici che percorrono un corridoio bianco che riporta al prato abbandonato. Almeno un veicolo è passato da quando ha nevicato, presumibilmente diretto a pattugliare il confine. Vista la lentezza del mio avanzare arboreo, decido di rischiare la strada bianca, ma mi addentro in uno dei solchi sporchi lasciati dai pneumatici per seguitare senza aggiungere le mie tracce. Il viottolo curva nella vegetazione innevata fin quando non vedo altro.

Sento un'auto, sento un cuore. È difficile discernere se viene da dietro o da davanti. Non mi muovo, ascoltando accanitamente: devo decidere cosa dire o come nascondermi. Non voglio essere una sorpresa. Da quale direzione proviene? Ancora non riesco a stabilirla: la neve attutisce il suono. Guardo negli alberi, radicato sul posto. Il rumore del motore non sembra aumentare. Anzi, forse diminuisce; forse sta andando nell'altra direzione? Mi convinco che è così – è così – e con cautela vado avanti, un passo alla volta, provando a non fare rumore mentre le mie orecchie urlano la loro concentrazione. È inutile. Sebbene il confine non possa essere lontano, l'istinto di nascondermi ormai mi ha sopraffatto, e mi riporto nell'ombra del bosco per proseguire in un parallelo celato, compiacendomi di essere vestito di nero.

Davanti c'è più luce. Devo essere arrivato. E infatti sento delle voci in lontananza: maschili, rilassate, armate. Le voci sono nette nel silenzio, compresse, stranamente forti nonostante la distanza, e mi rendo conto che sono altrove: sto ascoltando la conversazione trasmessa da un walkie-talkie. Chiunque porti il segnale non parla. Aspetto. Il freddo sale lungo le mie gambe. Vorrei arretrare, ma temo di spezzare un ramoscello. La radio si spegne. La portiera di un'auto sbatte. Il motore si accende. Lascio uscire il fiato mentre si allontana. Mi pare lo stesso veicolo di prima. 

Ora posso avvicinarmi. Dalla protezione degli ultimi alberi vedo finalmente il nuovo muro della fortezza, i pesanti pannelli di metallo che si innalzano dalla neve, intrecciati in risme di filo spinato che si arricciano dense lungo la cresta e ai suoi piedi. Il suo significato è chiaro. Parla di paura, di avere qualcosa da perdere, degli abbienti che vivono nella paura dei non abbienti. Ma stando lì davanti, vedo che il muro non si limita a incarnare questo sentimento, lo costruisce e lo rafforza. Dentro e fuori. Noi e loro. La risposta diventa una realtà ineluttabile, autoavverante, perché non ci può essere più un incontro, nessuna possibilità di placare quelle ansie. È soprattutto la divisione che li rende loro. Io sto dentro, guardando fuori, e penso a tutta la neve che si spala in mucchi ordinati davanti alle case alle mie spalle. È impossibile non pensare alle fotografie nei libri scolastici, ai muri che pensavamo di aver abbattuto – ai muri che un tempo ci rinchiudevano dentro.

Comincio a vedere dei volti che mi fissano attraverso il metallo, i volti degli esclusi, degli indesiderati, dei temuti – di quelli chiusi fuori. Il muro sta funzionando. Vedo solo il loro numero, ciò che rappresentano come gruppo, vaghi non-volti. Cerco di oppormi: che dire della loro paura? Sono coraggiosi o spaventati? Speranzosi o disperati? Ma anche le mie domande ora li separano da me. Non so nulla delle persone nella mia testa, ammetto finalmente a me stesso, perché in realtà non le posso vedere. Qui non c'è nessuno. Abbiamo costruito il muro; il passaggio avviene altrove.

Scappo.


5. Blocchi di brezza


"... I primi paesaggi oltre la frontiera danno l'impressione di essere gli ultimi, non tanto l'apertura di un futuro quanto la chiusura di un passato. L'occidente se n'è scivolato più in là nella lunga notte; l'orizzonte non pare più vicino di ieri. L'unico rumore è la neve in disgelo che gocciola sulle tegole già slittate dai tetti cedevoli. L'intonaco si crepa per esporre i mattoni sottostanti e la pioggia lecca via la malta. Alcuni interni bui si illuminano dalla prima fessura. Le case hanno perso casa ..."

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I primi paesaggi oltre la frontiera danno l'impressione di essere gli ultimi, non tanto l'apertura di un futuro quanto la chiusura di un passato. L'occidente se n'è scivolato più in là nella lunga notte; l'orizzonte non pare più vicino di ieri.

L'unico rumore è la neve in disgelo che gocciola sulle tegole già slittate dai tetti cedevoli. L'intonaco si crepa per esporre i mattoni sottostanti e la pioggia lecca via la malta. Alcuni interni bui si illuminano dalla prima fessura. Le case hanno perso casa. 

Sui colli, altri edifici sparsi sono ricomparsi ora che le foglie si ammucchiano contro le loro pareti, ma in primavera scompariranno di nuovo dietro il fogliame fresco, sgretolandosi sotto il sorgere della foresta: carpini, frassini, noccioli e salici. Oggi il sole invernale splende brillante, catturato dalla copiosa peluria della clematide. La chiamano 'barba del vecchio', a volte 'gioia dei viaggiatori', e si arrampica tra gli alberelli e lungo i fili telefonici che li collegano alle case: un paesaggio unificato di ocra e rame, caramello ramoscello. Ciò che resta della luna attraversa il blu. Un'anatra sbatte la nebbiolina che aleggia sul gelido fiume giù nell'ombra. L'acqua scorre pulita: la miniera è vuota.

Il villaggio comincia a concentrarsi, i suoi edifici si radunano lungo alcuni vicoli. Da qualche parte credo di sentire un martello – o forse un picchio – ma tutto torna a tacere. Il centro è contrassegnato da una fermata in lamiera ondulata e una bandiera logora, sotto la quale un cannone monumentale punta verso la foresta. L'unico negozio è spento e le finestre della scuola sono sprovviste di vetro; qualsiasi idea che venga dal vento fischia in un'aula per poi scaturire dall'altra. Sulla bacheca i manifesti elettorali sono azzurrati, i nomi sfocati, ma gli annunci dei defunti rimangono freschi, le foto e le date plastificate – una nota di quanto tempo sono stati qui. Mi riposo su un muretto per mangiare una cosa e subito si palesano due gatti per mugolare e sfiorare le mie caviglie con la coda. Sono grassocci da carboidrati; qualcuno li nutre. Mi chiedo quanti vivano ancora fra queste rovine, e se abbiano votato per le facce sbiadite sui manifesti elettorali che promettono di non permettere a nessun immigrante di venire a unirsi alla loro frana.

La strada serpeggia in salita e mi trovo davanti al cimitero. Il cancello scricchiola. Molte delle lapidi sono moderne – denaro cittadino – adornate con fiori sintetici lasciati dagli emigranti lontani. Guardo giù lungo il versante alla disposizione di mattoni e pietre, agli edifici tozzi che ricordano una vita più vicina alla terra. Quante generazioni torneranno a rendere loro omaggio? Il villaggio è una lapide.

Seguo il fiume a valle fin quando il terreno roccioso si appiana in un denso fango alluvionale. Accanto alla strada un trattore arrugginito è così impigliato dai rampicanti che la terra argillosa sembra voler trascinare il vecchio cavallo sotto. Da qui i campi si estendono in lungo e in largo senza cespugli o alberi. Solo i verticali tralicci dell'alta tensione forniscono un po' di prospettiva a questa bassa panoramica orizzontale. La terra rossa è stata solcata e zangolata in spesse zolle da qualcosa di molto più grande di quel trattore in disfacimento. Cosa producono campi così grandi? La scala industriale suggerisce sciroppi di alimenti per noi in città o mangimi a buon mercato per gli animali in gabbia: mi accorgo che anche il 'live-stock' bestiame è totalmente scomparso da questi paesaggi vani. Qualunque pianta sia, quando cresce non ci sarà né il ronzio degli insetti né il canto degli uccelli; nei loro sacchi i semi saranno già rivestiti del loro veleno. Le ultime strisce di neve giacciono congelate nelle trincee. 

Un terreno così vacuo e privo di vita è ancora più saliente dopo gli strati fitti di vegetazione e significato delle valli, e cammino più veloce per arrivare da qualche parte. Rimane difficile misurare le distanze. Cerco di non badare all'ora. Il mio respiro sostiene l'umidità, condensandosi sui peli sopra il labbro, una leggera foschia che si solleva dalle pianure alluvionali di fertilizzanti chimici. Con il petrolio non c'è più bisogno del fiume, e le sue acque sono state arginate e deviate per generare l'elettricità che scorre sopraelevata. Risorse. Rendimento. Capitale. Avanti verso l'azione. Mentre vado cerco di immaginare tutte le creature che hanno perso il loro habitat qui – i pipistrelli e gli uccelli canori, gli scoiattoli e i topi, i conigli e i ricci – e insieme marciamo e voliamo in un grande sciame verso la città per prendere il nostro posto al banchetto. 

Non riesco a mantenere l'immagine – non sono animali con cui sono cresciuto d'altronde – e quando arrivo al prossimo villaggio sono ancora una volta una specie solitaria. Nonostante lo sfruttamento intensivo del suolo, qui la quiete è quasi pari a quella delle terre abbandonate. Basta una sola persona che guida su e giù per i campi agglomerati; le piccole fattorie familiari acquistate sono state rese inefficienti per sfamare bocche lontane. I giardini sono invasi e le tende tirate e polverose, ma la biancheria appesa lungo alcuni fili testimonia la presenza di qualche abitante. Alla fine trovo tre uomini seduti fuori da un bar che non aprirà. Hanno orecchie lunghe e peli morbidi sulle guance. Mi scrutano intenti mentre mi avvicino, ma il mio saluto cade a vuoto, rimbalzando docilmente su una porta chiusa da troppo tempo. Magari si passeranno dei commenti in seguito, quando l'apparizione sarà al sicuro fuori dalla vista.

Qualcosa dell'ultimo giardino attira la mia attenzione. I rovi si arrampicano sui trascurati alberi da frutto come dovunque, i rami pesanti come le travi dei tetti, ma in mezzo a questa scena una scaletta si appoggia a un susino appena potato. Inoltre, alcuni fusti spuntano ancora da una striscia di terra zappata, dove sono stati coltivati una decina di cavoli. Sull'uscio appaiono occhi acuti e, spiegando il mio interesse, indico l'orto e gesticolo globi. Il vecchio conferma e viene a condividere le poche parole che riusciamo a scambiare. Accertato che la mia curiosità è innocente, m'invita a entrare per mostrarmi il resto del giardino, pungolando vari interventi con il suo bastone. Conclude la visita all'antico alambicco che tiene in una baracca dietro casa. Le sue pentole e i suoi tubi inverditi non hanno preparato grappa da tempo, ma conservano il loro posto d'onore. Fa cenno al bere e sorridiamo entrambi, prima che la sua espressione diventi seria e ci indichi il petto per invitarmi a berne uno insieme. Sistema con cura due sedie sotto il prugno e mi prega di sedermi mentre va a prendere le bevande. Attendo paziente. Forse qualcun altro nel villaggio ha continuato a distillare? Ritorna con una cola e due bicchieri di plastica e ci sediamo al sole tra le erbacce per un po'.

Non c'è un negozio e non c'è dove stare; devo raggiungere la prossima città. Questa non è campagna, ma una sorta di terra di mezzo, un betweenland, e siano lasciate abbandonate oppure denudate in servitù, queste terre non hanno più alcun vero bisogno di persone. Anche ciò che si produce qui deve essere trasformato altrove prima del consumo. Mi sono allontanato dalla città, ma non è possibile andarsene: questi paesaggi appartengono alla sua logica pervasiva, come me.

Riparto ancora una volta attraverso il vuoto e sporgo un braccio speranzoso a ogni automobile che passa nella mia direzione. È la più povera che si ferma, appena prima del tramonto. Godo il calduccio all'interno. L'autista è anziano e timido, e strizza gli occhi alla strada oltre le sue nocche consumate in concentrazione. Non forzo la conversazione. Gli ultimi raggi di sole penetrano l'automobile e colpiscono ogni villaggio che passiamo, i cui mattoni ardono di ambra per poi raffreddarsi di malva con il calare del crepuscolo. Il giorno si drena e il profilo di alte ciminiere senza fumo anticipa il nostro arrivo in una città buia. Subito l'insegna di un hotel mi chiama. Come dita che contano alla rovescia, solo tre delle cinque lettere sono ancora illuminate, ma almeno lo sono, e ringrazio profusamente il gentile autista, ripetendomi anche dopo che è ripartito verso il suo riparo.

Il ragazzo alla reception sussulta di sorpresa e nasconde il suo blocco di schizzi sotto le scartoffie mentre controlla le liste: 'Prenotazione?' Gli dico di no e chiedo se posso vedere cosa stava disegnando. Lui si rilassa e ora tocca a me sorprendermi: lì, in grigio grafite, c'è una bellissima lepre. Il suo muso selvaggio e le lunghe orecchie ansiose esprimono qualcosa che ho percepito durante la giornata, ma che non mi aspetterei di trovare qui: una sensazione. Ripenso a quegli uomini baffuti e all'onnipresente 'barba del vecchio'. 'Ma quello è solo uno schizzo veloce – venti minuti,' mi dice, raggiante della mia fascinazione, 'dovresti vedere il resto – se ti va – dall'inizio, i veri disegni...' Tolgo lo zaino e sfoglio con rispetto le elaborate illustrazioni di robot corazzati e donne corpose in contorni definiti finché non torno alla lepre di oggi. Chiudo il blocco di schizzi – ma dove sono tutte le donne?


Il giorno dopo brilla e mi abbasso il cappello per proteggermi gli occhi. Sono ai margini di una piccola città ai margini di un grande fiume e sono impaziente di vedere le acque che seguirò fino al vero occidente, come tutti gli altri, nelle terre dell'abbondanza. Taglio fra i quartieri per trovare la sua sponda che a sua volta mi porterà nel centro, ma dopo alcune virate mi accorgo ben presto che c'è qualcosa di molto strano in corso. Dove sono le persone? Mi fermo. Provo a muovermi di nuovo. È come se fossi ancora nei villaggi di ieri, ancora avvolto dall'assenza, ancora in ascolto di qualcosa al di là della statica. La leggerissima brezza accentua la quiete, solleticando le ultime foglie frementi dei pioppi e facendo frusciare le chiavi penzolanti dei frassini, i brividi dei semi essiccati come sonagli di serpenti in giro per la città. Qui sotto, i fitti cumuli di foglie croccanti ne lasciano libera una, ogni tanto, a saltellare lungo la strada: tic-tic-tic. Questi sono alberi maturi, urbani, piantati in file ordinate per verdeggiare i blocchi grigi, ma i loro sussurri non sono diversi da quelli delle foreste spontanee che ricoprono i villaggi. 

L'inquietante pace s'impossessa di me. Il mondo sta invecchiando. Io sto rallentando. Mi imbatto nell'ennesimo parco giochi all'ombra dei suoi palazzoni. L'altalena, lo scivolo, la giostra e il dondolo si stagliano immobili contro i sottili movimenti degli alberi lì intorno, i loro colori primari provvisori  e poco convincenti, come se fossero da mescolare in un grande barattolo di vernice per ottenere un marrone più naturale.

Quando raggiungo il lungofiume ho quasi dimenticato che lo cercavo e mi siedo su una delle tante panchine vacanti per contemplare ammutolito il movimento intrinseco dell'acqua. Il fiume scorre e increspa come ha sempre fatto, girandosi nei suoi gorghi. Sulla sponda opposta, svariati pioppi crescono ostinatamente dalla sabbia e dall'acqua, troppo lontani per permettermi di vedere la luce specchiata marezzare sui loro tronchi ondulati. Il flusso limaccioso non racconta storie. L'acqua torbida non rivela alcun dettaglio che io possa afferrare. Nessun passato. Nessun futuro. Sento la mia mappa cartacea disintegrarsi nel bagnato, un lampo di paura e un'onda di sollievo – pericolo e pace. Ma per riflesso risucchio una boccata d'aria e, come un pesce affamato, mi volgo verso la corrente, in attesa che una barca si affacci e rianimi questo presente continuo. 

È legname galleggiante che viene per primo, un salice che fluttua alla deriva, bottiglie d'acqua e altri detriti colorati impigliati nei suoi rami semisommersi. Mi chiedo quanta strada abbia fatto – da dove sia stato strappato quando il terreno è scivolato – e faccio scorrere gli occhi sulla sua corteccia fessurata. I semi cadono dove cadono; nessuno sceglie dove nascere. 

Percepisco il vento e lascio che mi baci entrambe le palpebre. Paesaggi come voglie mi percorrono, birthmarks, linee di contorno innavigabili sulla punta delle dita. Il tragitto del salice continua, nuovi steli scarlatti spuntano fulgidi. 

Dalla stessa direzione appare una figura lontana, la prima persona che vedo qui al fiume. Pensando che potrebbe scomparire di nuovo, mi alzo per intercettarla. Avvicinandomi mi accorgo che sono in due, una madre e il suo bambino, le loro sciarpe strette contro il freddo, il sole in faccia. Vedo che la donna sta parlando, ma la brezza soffia verso di loro ed è come se le sue 'S' non riuscissero a rompere il monopolio che le foglie secche detengono su quelle frequenze sonore: ssshhh. Vuole incoraggiare il suo bambino a giocare nei loro mucchi, ma lui si rifiuta di entrarvi, forse nervoso e rispettoso delle uniche cose capaci di tirare fuori un suono. Poiché le foglie rivelano la brezza, e la brezza rivela il tempo: il tempo passa; la donna è giovane. Lei fa un ultimo tentativo, calciandone alcune in aria per mostrare, ma è come se il tempo stesso esalasse, e ricadono semplicemente a terra ancora. Il bambino prende la mano della sua mamma e stringe. 

Li ho quasi raggiunti, ma mi rendo conto che sto andando troppo veloce. Troppo tardi. Troppo presto. Provo ad articolare un buongiorno, ma nella mia fretta ed esitazione le parole escono troppo basse, a malapena udibili. Entrambi mi squadrano per un attimo mentre passiamo, i loro volti sovraesposti in una vecchia fotografia ingiallita, e poi sono via. Mi viene in mente solo dopo che, con il sole mattutino così basso e intenso nelle loro facce, la mia a sua volta sarebbe rimasta una sagoma.

La brezza si alza e le foglie mi turbinano attorno. Passo da finestre fracassate e da una grande sinagoga rovinata. Cosa è successo qui? Mi discosto dal fiume e vago per la città a caso. È molto particolare: alcuni quartieri sono quasi completamente abbandonati mentre altri ticchettano in modo più riconoscibile, motori stanchi che girano al semaforo rosso, le prime foglie che si posano sui parabrezza. Cosa succederà qui? 

La città ha perso quasi metà della sua popolazione nel giro di una generazione.

Nei quartieri residenziali molte delle attività commerciali sono già chiuse, superflue, e la disoccupazione si manifesta nelle loro vetrine vuote, nei mazzi di fiori di plastica lasciati in mezzo agli scaffali spogli contro il buio polveroso. Natura morta. Sfitta. Gli unici luoghi in cui la gente si riunisce ancora sembrano essere i supermercati: l'attesa che necessita di sfamarsi. 

La povertà è evidente. I palazzoni si scrostano, i lampioni arrugginiscono. È impressionante vedere un luogo costruito così di recente cadere in un degrado così repentino; molti di quelli che vivono qui avranno visto questi edifici sorgere. Questo non è il lento deterioramento di una rovina, questo è crollo.

Meno persone ci sono, più l'economia rallenta; meno lavoro c'è, più persone se ne vanno. C'è stato un certo investimento di ritorno – molti di quei parchi giochi sono nuovi di zecca – ma un parco non può convocare bambini se quelli abbastanza giovani per averli se ne sono già andati per trovare lavoro altrove. Questa è una città, ma non è la città. È troppo lontana. È troppo piccola. Non può mantenere la promessa.

Tra le attività commerciali ancora aperte, molte promettono una via d'uscita. Ci sono scuole di lingua per chi ha tempo da investire, negozi di prestito per chi non ce l'ha, e bische slot per chi crede il futuro sia al di là degli investimenti. Tutte offrono discrezione, le finestre ricoperte in modo che non si possa vedere all'interno. Le bische sono particolarmente celate, le loro finestre oscurate con fotografie a grandezza naturale delle ricche ragazze sorridenti che devono essere nascoste lì dentro. Entro per conoscerle, ma trovo solo slot machine che lampeggiano e gorgogliano nel buio. Per una moneta potrei scivolare in un mondo scintillante di oro, cappelli da cowboy e donne a vita stretta con enormi seni a punta – il Far West – ma ormai è troppo tardi: quelle ricche ragazze sorridenti hanno già ripulito il posto e sono scappate nella capitale a bere cocktail. 

Provo un bar. Gli anziani bevono caffè lattiginosi. La radio è a tutto volume con brani dance e pubblicità in alternanza. Una televisione trasmette video musicali sconnessi. Mi siedo per contemplare ammutolito gli asincroni spruzzi d'acqua delle piscine azzure, il sesso e l'eccesso della festa che a quanto pare si svolge altrove. Fuori, i cavalli scheggiati di una giostra aspettano sotto un albero di natale. A fianco, un cestino senza fondo è stato spruzzato con simboli politici di violenza.

Provo la stazione. La pesante porta cigola nel silenzio mentre mi chiudo alle spalle la tacita città, ma non basta a svegliare l'unico uomo all'interno: dorme supino sotto un giornale, senza russare. Mi avvicino in punta di piedi al tabellone delle partenze e vedo perché non c'è nessuno in giro. La porta cigola di nuovo. Dietro c'è l'autostazione, e dal tetto piano cresce un alberello. È un ailanto, un 'ghetto palm', una specie pollonante che può crescere un paio di metri all'anno. Verrà tagliato, di nuovo e ancora, per qualche altro anno.


L'autobus termina al capolinea della capitale, sulla riva dello stesso fiume. Eccomi tornato. Tornato nella folla, tornato nell'azione, tornato dov'ero. Mi reco alla stazione per acquistare un biglietto per domani. Conosco la strada.

Ma mi fermo di colpo quando ci entro dentro: ​​una doppia ripresa, un déjà vu. Non ci credo. Non c'è nessuno. La mia pelle formicola. Oltre le porte successive sento che nemmeno lungo i binari c'è gente. Il dubbio mi assale, le giornate sfumate, e disorientato mi spingo fuori. La cruda realtà filtra. È semplice: non c'è nessuno perché non c'è un treno. I binari stessi sono stati divelti. Le piattaforme, ancora da demolire, sono rimaste come moli che protendono in un mare di macerie: oltre la stazione un'enorme fetta della città è stata rasa al suolo. Attraverso il nevischio vedo gru lontane che oscillano sotto le prime torri di un gigantesco sviluppo lungofiume. Un solo albero è sopravvissuto alle ruspe, un'unica isola di significato tra la mia piattaforma e la nuova costruzione, tra passato e futuro. Un abete.

Sul muro c'è un avviso informativo accanto a una mappa delle deviazioni. La vecchia stazione diventerà un pezzo da museo, un gingillo sotto i grattacieli che stanno sorgendo. Una stazione sostitutiva sotterranea è in costruzione, vicino a uno svincolo autostradale. Si chiamerà 'Center'. Vado invece a vedere cosa si costruisce qui.

Risulta però che il resto del perimetro sia avvolto a bolla da chilometri di teloni stampati. Ogni pezzo del recinto ha la sua tesa pubblicità opaca che copre e vende il futuro in creazione dall'altra parte. E mentre le bische slot erano ricoperte di fotografie di ragazze, ognuna di queste pubblicità è interamente generata al computer: pixel che non sono mai stati altro che pixel. Ora le immagini sono più attente a non rivelare i volti delle figure neutre, in modo che si possa immaginare il proprio volto al posto del loro. Ogni semplice immagine è accompagnata da poche semplici parole. Le leggo a turno mentre passo: 'Fly Me to the Moon; Stardust; Autumn Leaves; For Sentimental Reasons; The Magic Window; When I Fall in Love; My Kind of Town'. Sono scritte sopra dolci colori pastello, abbinate ad acqua, stelle, petali, palloncini e nuvole bianche di cotone. Nell'ultima della serie una bambina gioca in un prato e devo guardare due volte, perché è proprio quello che abbiamo lasciato per venire qui. Prati non ci sono quasi più. Le mucche sono nelle loro stalle di cemento a mangiare cereali, e noi siamo nelle nostre città di cemento a mangiare mucche. Gli erbicidi hanno garantito questo patto; le erbe e i fiori sono diventati erbacce. 

Continuo a guardare il composito di cielo blu, ma le erbe si dissolvono ancora in pixel, i fiori impressionisti troppo vaghi per distinguersi come specie specifiche. L'immagine funziona solo a colpo d'occhio. Tutto ciò che rimane è un bel motivo di verde CMYK. Faccio un passo indietro per vedere di nuovo la brezza soffiare fra le erbe. Ma vorremmo davvero che i nostri figli giocassero nella realtà? Nascosti tra le piante ci sarebbero insetti e aracnidi – formiche, ragni, api e zecche – morsi e punture, ortiche e spine: febbre da fieno. Il vento e il nevischio rimbalzano sull'immagine solare. La bambina sorride ai suoi genitori mentre pagano l'acconto per il nostro futuro protetto.

Infatti, la prossima serie di teloni sono tutti pixel-panorami che lo descrivono. Questi si concentrano sulle torri stesse – 'Parkview; Aurora; Magnolia; Arcadia' – sulle loro lisce superfici linde e sulla loro incredibile altezza da cui non guardare in giù. Mi viene da pensare che il sogno non sia solo quello di allontanarsi dal fango sporco alla città pulita, ma anche di allontanarsi dal suolo stesso, dalla terra che ci chiama. Le grandi altezze offrono astrazione. Solo lassù, nel cielo eterno, si può rendere la natura un luogo sicuro. Con il grattacielo si spicca il volo – un tentativo di rifugio dall'ultima paura. Lo scappare e l'escapismo; escape and escapism. Siamo tutti in fuga?

Inevitabilmente il rumore del cantiere sottostante parla invece di cenere e polvere. Uno dei teloni si è staccato e la città futura si increspa nel vento. Guardo oltre il buco della montatura. Melma e pozzanghere. Pile e rottami. Un cane zoppica tra le macerie, la zampa posteriore appesa. Seguo il suo percorso finché non scompare nella sabbia. Il cane selvatico è diventato un cane di strada; il cane di strada è diventato un cane randagio. Nella città ordinata e incontaminata è diventato un disturbo, un problema – un promemoria.

Faccio come il cane e mi infilo tra due pali del recinto per scendere sulla sponda. Scopro subito perché vogliono tenere l'area sigillata: le tubature industriali pompano i luridi scarichi della costruzione 'Waterfront' direttamente nel fiume.


6. Astallarsi


"... Due occhi. Plasmati come semi. Da cui un sogno comincia a crescere. Sembrano guardare me, persino dentro di me, come se il mio corpo non terminasse con la mia pelle, come se fossi senza margini, senza confini. Gli occhi sorridono e dentro qualcosa si espande mentre mi permetto di sentirmi scelto, come se quella promessa dell'infanzia fosse stata mantenuta. Perso. Ritrovato. A quale dove potrei appartenere? All'improvviso una domanda diversa offre una via di fuga da questo viaggio senza fine: a chi potrei appartenere? ..."

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La notte cado in un sonno profondo confortante.

Due occhi. Plasmati come semi. Da cui un sogno comincia a crescere.

Sembrano guardare me, persino dentro di me, come se il mio corpo non terminasse con la mia pelle, come se fossi senza margini, senza confini. Gli occhi sorridono e dentro qualcosa si espande mentre mi permetto di sentirmi scelto, come se quella promessa dell'infanzia fosse stata mantenuta. Perso. Ritrovato. A quale dove potrei appartenere? All'improvviso una domanda diversa offre una via di fuga da questo viaggio senza fine: a chi potrei appartenere? L'ampia foce del fiume mi abbraccia, baciando e stuzzicando la mia serietà, e la donna mi prende per mano per portarmi in un piccolo paese alla fine della strada, un nido lassù nelle montagne.

Il paesino si posa in modo precario sul labbro di un costone. Ripide scintillanti onde di verde s'infrangono tutt'intorno – una giovane foresta vigorosa, fiera nell'assenza di tutte le persone che sono state trascinate giù al mare – ovunque il suono di acque chiare che pian piano portano giù la montagna al loro seguito. Ho fatto molta strada dal santuario all'inizio, ma qui, finalmente, sotto le arcate viventi della foresta, ritornano gli altri mammiferi: sento la coda della volpe, il muso del cinghiale, la zampa dello sciacallo, il collo del cervo, l'orecchio dell'orso. Incrociano i nostri sentieri, senza vederci, a passi soffici nel pacciame e decadimento. 

Le chiome della foresta luccicano, dandoci l'impressione di essere sott'acqua, e su quel fondale roccioso ci sono molti naufragi, case e stalle arenate nelle tempeste del tempo, piante che crescono attraverso tetti crollati come alberi di nave per un nuovo vento. Dappertutto persistono testimonianze, ma già le composizioni di pietre un tempo ordinate dalla mano umana si stanno allentando. La donna indica delle farfalle nere che si sollevano di fronte a noi lungo la strada; le morbide, vibranti ali assorbono anziché riflettere.

Tutto si muove salvo il paesino nel mezzo, uno stretto groviglio di viuzze lastricate e case semplici. Nonostante la beatitudine delle nostre erranze boschive, gravitiamo istintivamente a questa promessa di rifugio, al canto degli uccelli e al gorgogliare di una fontana. Una fresca umidità emana dalle grandi, antiche serrature dell'abbandono, e fiori selvatici crescono dalle crepe nelle porte. Ma vediamo anche dei festoni variopinti appesi tra gli edifici, tremolanti nella stasi: forse non tutti se ne sono andati?

Troviamo gli ultimi abitanti uno a uno e ci presentiamo. Sentono che il loro paese non appartiene al mondo implacabile oltre la valle e sono sorpresi di incontrare forestieri. Ci accolgono con calda curiosità, lieti di poter condividere il loro piccolo mondo con qualcuno, ancora più consci del proprio senso di appartenenza nell'esprimerlo. 

Tutti i luoghi hanno nomi e storie: un pero ricorda il prozio che lo innestò, un'ansa del fiume una calda estate d'infanzia, una frana la grande tempesta. Le persone raccontano storie piuttosto che la Storia, e alzano lo sguardo alle forme delle nuvole per vedere il futuro. Guardano il sole e la luna orbitare intorno a loro, felici di essere al centro di tutto. Ammiro la forma dei loro polpacci e avambracci, con la speranza che presto anche i miei diventino sodi e forti.

Ci incontriamo al bar del paese, miracolosamente ancora aperto, per decidere che fare con le giornate: tagliare le erbacce, preparare un nuovo orto, riparare un muro a secco, riaprire un vecchio sentiero, salvare l'ultimo prato. Forse un giorno potremmo anche organizzarci per mettere in piedi un piccolo concerto estivo? Forse verrebbero altri? Dopo il lavoro ci tagliamo un'anguria da condividere – polpa rossa nell'erba verde – anche se siamo troppo pochi per finirla. Due grossi cani si sdraiano speranzosi al sole e poi all'ombra e di nuovo al sole, seguendo i nostri giochi impegnativi nelle profonde pozze scure dei loro occhi.

Al contempo noi due cominciamo a sistemare un nostro posto semplice dove stare. La struttura un tempo era una stalla – spazio per due mucche e il loro fieno – e sembra esattamente ciò che vogliamo, un posto dove astallarci, qualcosa di stabile, un'ancora, per sentire che le cose potrebbero andare avanti e avanti, come l'acqua che corre e corre dalla fontana. Allora imparo a impastare la malta, bramando che si indurisca.

Vedo al lavoro mani che non riconosco, felici e orgogliose dei nuovi movimenti intorno agli attrezzi, tappando perdite e inchiodando il legno con determinazione. Vedo la donna nel giardino, le sue lunghe dita nel suolo scuro che sta migliorando, nella terra che attira il suo corpo e il mio desiderio.

Il paese ci assorbe. Proprio come quelle farfalle nere, non riflette: non ci sono pareti di vetro o vetrine, niente schermi e niente specchi. In questo sogno non vedo mai la mia faccia. 

Il sogno ha molti giorni e molte notti, ma io non dormo mai. Farlo rivelerebbe il sogno per ciò che è; addormentarmi significherebbe svegliarmi.

Ma inizio ad affaticarmi. Una pressione sta aumentando, preme su di me dall'alto, come se la luce del giorno diventasse sempre più intensa. I miei occhi si appesantiscono, li strizzo per vedere quanto sembrava chiaro fino a un momento prima. Scruto nel cielo blu così blu, confuso. Un minuscolo aeroplano passa in alto. Al suo interno ci sono più persone che in tutta la valle sottostante. Il rombo del motore dura a lungo dopo lo scomparire dell'aereo oltre la cresta della montagna, e il sogno trema: la violenza là fuori non cede solo perché io non la vedo.

Mi rifiuto di arrendermi, nascondendomi come meglio posso in qualsiasi ombra possa trovare. Ma le cose stanno cadendo a pezzi, e nonostante faccia del mio meglio per continuare a rimediare, la mimica diventa ovvia: non so come costruire o coltivare. La mia pelle prude e impazzisce, un margine ancora una volta, un confine sanguinante di conflitto. La donna mi fascia come meglio può, continuando, nonostante tutto, a sorridere nei miei occhi rigonfi, anche se i suoi tradiscono una preoccupazione crescente. Cerco di sorridere a mia volta, ma posso sentire il mio risveglio, il sogno vacillare, e la consapevolezza mi schiaccia. Trovo un altro respiro ancora e poi un altro. Mi aggrappo ancora e ancora. Bevo un altro caffè al bar. Strappo un'altra erbaccia dall'orto. Vado ancora una volta a letto e vedo quella bellissima donna dormire nel letto che abbiamo costruito insieme – ma dove io non sto dormendo. Le mie ciglia sono bagnate. Le mie guance sono tese. I miei vestiti si stringono al mio corpo sudato in qualche città sporca, lontana, dove nessuno mi conosce.

Il risveglio è una morte.

Rimango lì disteso a lungo.

III

I L  T R A G I T T O 

D E L  S A L I C E

E X T R A C T


7. Monoluogo


"... Forse la devastazione era troppo grande da contemplare – più facile allora compensare. In ogni caso chi non ha tetto non ha molto tempo per fermarsi a riflettere. Cammino da blocco a blocco attraverso città azzerate, edificate a rotta di collo secondo la prossima fuggevole utopia nel vuoto lasciato dalla precedente. Più grande è la distruzione, più veloce la costruzione; più ampio è il progetto, meno distinta ogni strada. Mi rendo conto di viaggiare terre colonizzate da un'unica idea, come la semplice macchia che segue un grande incendio boschivo – paesaggi monotoni di perdita inespressa. Monoluogo. ..."

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Quando infine mi alzo, accorro. Non importa più dove sono – non appartengo e non mi astallo – non lo bramo. Me ne sono già andato. La vita mi scorre accanto e mi lascio trascinare nel flusso, teletrasportandomi, ancora e ancora, per sovrapporre una città sull'altra finché non iniziano a sciogliersi in una sorta di liquido amniotico. Caffeina, zucchero, alcol. Se non riesco a stare al passo col mondo che cambia intorno, il loro consumo potrebbe almeno aiutarmi a 'riprendere controllo' di me stesso, modificando le reazioni chimiche della mia mente per navigare e intorpidire la giornata. Stimolare e tranquillizzare. Succhiare e ingoiare. C'è conforto nel riportare la vita nella bocca in cui è iniziata. Inserisco le cuffie. Indosso gli occhiali da sole. Pago 'contactless'.

La routine viene presto con la stessa naturalezza con cui immagino venisse una volta nei piccoli luoghi. Pur trovandomi ogni giorno in una città diversa, potrei vivere più o meno la stessa giornata ovunque. È il viaggiare stesso a prescriverlo di fatto, gli snodi di trasporto sono i luoghi più affidabili di tutti. Puoi prendere un aereo o un tav e scendere dove eri prima, come le montagne russe di un parco a tema. Le sale aperte alla luce del giorno sono state sostituite da caldi vitrei intestini. Centri commerciali. Tempo da ammazzare. 'Tenete sempre i vostri bagagli ed effetti personali con voi.' Non ci sono attese – non ci sono panchine – un viaggio non è più un evento. Imparo a distogliere lo sguardo quando la polizia effettua un controllo.

Mi sveglio presto per spremere un cartone di latte da una mammella setosa. Do da mangiare alle galline i cereali per la colazione e accendo la tv per ascoltare il coro dell'alba. Ordino la stessa moka sul fornello e lo stesso sorriso che non conosco mi chiede se ci voglio del cioccolato sopra. Chi ci può biasimare, se cerchiamo giusto un po' di conforto familiare per affrontare il viaggio? Pronto ancora per la battaglia, esco fuori fra le tante persone nei propri mondi, ognuno di noi come se fosse su un piano diverso. Ogni corpo si occupa della propria attività; ogni corpo scorre lo stesso dito nello stesso modo. Trasferimenti e transazioni. L'evasione dell'indifferenza. Sani e salvi nelle stesse vite.

Mi ritrovo sperduto nello specchio di un ascensore affollato; nessuno dei miei vicini ricambia lo sguardo. Controllo il mio aspetto. I vestiti si sfilacciano, il viso è grigio. Ma le soluzioni ben segnalate mi indicano la strada: sotto lo stesso tetto posso rammendare i vestiti in un batter d'occhio – 'fai risplendere la tua luce' – e consultare gli scaffali da erborista per eventuali creme per la carnagione scemante – 'la via della natura'. Devo solo scegliere quale colore. Soddisfatto ma ancora affamato, mi tuffo nella fresca dispensa dove centinaia di tramezzini sono stati preparati apposta per me, l'ampia selezione convince ed emancipa, offrendomi la possibilità di rivendicare il mio strato d'identità. Ma c'è così tanta scelta spalmata sullo stesso pane che esito per un momento, un po' caldo, un po' stordito, cercando di ricordarmi quello che ho preso ieri: millenni di salvaguardia contro la sorpresa, un'ancora senza porto.

Mi sono spinto troppo in là e vado a cercare il 'centro storico' per provare a riorientarmi un po'. Non ci sarà un passato, ma forse le forme storiche di alcuni edifici iconici possono offrire quanto basta per stabilizzare questa sfocatura di familiarità. Forse per questo facciamo foto di queste sagome così volentieri e ripetutamente: per organizzare esperienze somiglianti in memorie separabili? Io sono qui. Io sono qui. Io sono qui. Ci basterà? Tre orologi segnano la stessa ora in tre città diverse.

La guerra non è mai così lontana come ci piace credere, e nel guardare rischio di vedere. La verità è che la maggior parte del centro storico non è vecchia. Per quanto queste città europee si vantino di essere intramontabili, persino le loro più antiche cupole e guglie sono state spesso ricostruite – rappresentazioni ancor prima di diventare immagini. Mentre di solito le case intorno non erano ritenute degne di essere salvate. E non tutto si può ricostruire. Non ci sarà un passato perché il passato è stato bombardato, sventrato, incendiato: le fotografie in bianco e nero scattate all'indomani della distruzione descrivono tutte la stessa città cancellata. 

Forse la devastazione era troppo grande da contemplare – più facile allora compensare. In ogni caso chi non ha tetto non ha molto tempo per fermarsi a riflettere. Cammino da blocco a blocco attraverso città azzerate, edificate a rotta di collo secondo la prossima fuggevole utopia nel vuoto lasciato dalla precedente. Più grande è la distruzione, più veloce la costruzione; più ampio è il progetto, meno distinta ogni strada.

Mi rendo conto di viaggiare terre colonizzate da un'unica idea, come la semplice macchia che segue un grande incendio boschivo – come prati colmi di 'milkweed' – paesaggi monotoni di perdita inespressa. Monoluogo.

Come navigare? Come leggere la mappa o raccontare la storia? Mi sento fremere tra sabbie riarse e mari aperti come una corrente alternata.

Come ci incontreremo se non sappiamo dove siamo?

Sento l'ansia che mi sale dentro, la bocca dello stomaco amara in bocca, ma non posso far altro che ingoiarla di nuovo e proseguire, temendo il panico vero e proprio se mi fermo. Quando ci si perde, a volte l'unico conforto è scegliere una direzione e avviarsi, via avanti. Così continua e io continuo, sempre dritto, sempre a ovest. Il mio sangue circola. Il pianeta gira. Un astronauta si lancia nello spazio.

Le città stesse continuano ad arricchirsi, concentrati centripeti di capitale in accumulo, ma ci sono sempre meno buchi da riempire e sempre più persone che dormono per strada: ormai costruire qualcosa significa demolire qualcos'altro e generare più agiatezza sembra generare più povertà. L'aumento degli affitti spinge gli abitanti verso i palazzoni delle periferie mentre i centri si mantengono per chi è soltanto di passaggio per fotografare i palazzi. Non tutti riescono a tenere il passo, non tutti riescono a dimostrare il proprio valore: le luminarie festive sono a forma di fiocco di neve ma illuminano pure i corpi nei portoni dei gelidi viali.

Diventa sempre più difficile guardare dall'altra parte, ignorare logora quasi quanto affrontare la realtà. La mia mascella ridondante fa male a forza di digrignare. Vorrei strillare, ma a chi? Sono di nuovo al centro commerciale della stazione e nei non-luoghi nessuno può sentirti urlare.

I nomi delle città possibili sfarfallano sui tabelloni delle partenze. Sono affiancati da schermi informativi lampeggianti con offerte di regali per sotto l'albero in alternanza con i punteggi e i titoli di prima pagina. Due per uno. Tre a zero. La guerra si protrae a est. C'è un'altra marcia rabbiosa a ovest. 'Prima noi! Casa nostra si tiene per noi!' Le macerie di una città si posano sulla mente dell'altra. Ma squilla una disperazione nella pretesa che solo un muro possa proteggere l'ultimo albero rimasto in piedi per le nostre tradizioni e i nostri valori dove una volta c'era una foresta. 

Quell'albero scintilla, illuminato come la città. Mi avvicino per annusare i suoi aghi scuri. L'odore sembra custodire un po' della mia stessa disperazione, eppure respirarlo mi calma e per un po' sento i polmoni invece che lo stomaco. Respirando più a fondo, noto un altro odore incongruo nel ronzio disinfettato: paglia e segatura. Dietro l'albero ci sono le stesse vecchie statuine nella stessa vecchia stalla, il presepe così familiare che riesco a malapena a vederlo: pastori a vegliare, asinello, madre vergine, neonato. Il sempiterno. Il sempreverde. Una storia dall'oriente per definire l'occidente. Seppellita sotto tutta la cioccolata e le confezioni regalo c'è ancora una storia di speranza, ma c'è anche la storia di una famiglia in movimento. Una famiglia costretta a lasciare la propria città natale da un impero di raccolta dati. Una famiglia che presto sarà in fuga dalla persecuzione di un dittatore violento. Lontano in una mangiatoia. È tardi e non c'è nessuno a vedere, così salgo sulla paglia per vedere il volto pacifico del neonato. Ma il bambino non sta dormendo come nella canzone, i suoi occhi sgranati mi fissano come se io non ci fossi. Chi è che dovrebbe salvare chi?

Fuori i fogli di cartone giacciono abbandonati e fradici sotto vestiti sparsi. Un tetto sporgente aveva fornito del riparo e l'intera area è stata cosparsa d'acqua per dissuadere le persone senza fissa dimora dal radunarsi in un luogo così visibile. Sui gradini che scendono alla metropolitana una scarpa malandata viene scavalcata più e più volte. Alzo lo sguardo per cercare una stella. Sono duemila anni che raccontiamo la stessa storia. Le stelle sono le stesse ma anche gli stracci.


8. Tenere e tenerezza


"... 'Cosa ci fai qui?' Prendo fiato e rispondo, quasi a me stesso, che sto scrivendo un libro. Il suo viso si illumina e subito mi sento in imbarazzo. 'Sei uno scrittore?' Stavolta ci penso un po' prima di parlare. 'Beh...' balbetto: 'scrivo... magari è più facile con i verbi.' Guardandomi con grande serietà, si appoggia allo schienale della sedia senza rompere il contatto visivo. 'Non sono una rifugiata', annuncia, 'sono fuggita'. Mi chiede di cosa stia scrivendo e ci penso ancora. 'Credevo di cercare il significato di casa', mi ricordo – macerie e rovine nell'occhio della mente, la foschia tremolante dell'orizzonte – 'ma comincio a pensare che sia piuttosto l'essere senza casa che voglio capire'. È una domanda, un invito. Lei risponde ..."

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È l'alba. Ho dormito. Il sole sorge alla mie spalle e illumina le nubi contuse più avanti, risaltandole. Dalla mia finestra le cose scivolano nel passato. L'intercity scorre a ritmo serrato. Mi stropiccio gli occhi e mi stiracchio la schiena e so che qualcosa deve cambiare.

Sento il suono degli altri corpi in lento risveglio, l'interno del caldo treno ben isolato dallo sfrecciare del suo moto che taglia la realtà esterna. Sorvolare così sembra darci la possibilità di stare fermi in questi paesaggi inquieti – potresti quasi convincerti che stai tornando a casa – ma nessun viaggio dura per sempre, e prima o poi dovrò fare pace con l'impatto dell'arrivo.

Controllo l'ora. L'antropocene passa in uno sprawl. Da qualche parte il fiume scorre ancora parallelo, confinato in canali sempre più stretti da argini cementati, mentre sempre più linee registrano l'ultima altezza dei danni agli immobili. Sembra che sveltire lo scarico dei liquami da una città li porti soltanto prima alla prossima, e che senza la libertà di ampie golene e meandri sinuosi il fiume corra sempre più veloce verso di noi. 

L'acqua è il mio orologio: pugni sciolti, polsi sottili, poggiati inerti sul grembo.

C'è uno schiocco all'entrata di un tunnel e mi si tappano le orecchie. L'oscurità vitrea replica i nostri corpi: in transito, in attesa, in alta velocità – sospesi nel tenersi

Mi alzo di scatto e prendo il mio taccuino, sfogliando a ritroso le pagine bianche degli ultimi giorni. Finalmente comprendo l'inerzia del mio viaggio; non ci sarebbe mai stato un arrivo! Chiudo gli occhi per riaprirli e scrivo 'non c'è scampo nell'escapismo'. Usciamo dal tunnel in una valle più ampia. Stringo forte la penna.

Fuori dai miei pensieri i colori si sono mutati e colgo ora il sottile inverdirsi del paesaggio: la crescente vicinanza dell'oceano. Sui muri e rami spogli, pallidi licheni si diffondono come vernice scrostata, mentre ciuffi di muschio s'insinuano nell'entroterra del cemento umido come un tempo sulla roccia nuda di continenti esanimi. Stiamo andando troppo veloci per poter vedere altro che il colore, ma da qualche oscuro pantano riempio le lacune per conferirgli un po' di consistenza – da qualche parte le mani di un cittadino afferrano ancora un tronco d'albero. Lascio vagare lo sguardo lungo il morbido margine dell'orizzonte collinare, il suo verde ombroso di conifere, e sento l'impulso di salire lassù, nella natura selvaggia, dove nulla è deciso. 

Quanti magazzini e capannoni tra di noi: quadrati, piatti, rigidi. Il più grande è un centro di distribuzione per una delle aziende più grandi del mondo, chiamata come una delle foreste più wild del mondo. Quanti alberi, quanti ancora, dall'altra parte del pianeta? Quante scatole, quante spedizioni, da questa parte? Superiamo un'altra autostrada, automobili pendolari, e ricordo che il camionista era diretto qua. Ricordo cosa mi diceva, perché ha scelto questa città diffusa dove vivere: 'incolumità, sicurezza – lavoro'. Sono nel profondo midwest, le nuove terre promesse dell'est.  

Sono terre che ormai possono permettersi un po' di foresta. Non manca molto ai vecchi porti, le foci dei fiumi dove per secoli hanno scaricato la ricchezza del mondo – e dove un tempo milioni di poveri affamati s'imbarcavano sulle navi per colonizzare le proprie promesse lontane. Ora i prati e campi di patate sono ricoperti di pannelli solari, fortemente inclinati verso sud.

Il treno rallenta e approda a una stazione ritenuta degna di una fermata. È una città piccola, molto più piccola di quelle tra cui rimbalzo in questi giorni, ma il suo nome è famoso e richiama alla mente la poesia e le arti, la fine dei tempi e la morte. Scendo.

Il cambiamento nell'aria è subito evidente, il movimento è un altro. I passeggeri si sparpagliano gli uni dagli altri. Le automobili attendono alle strisce pedonali. Gli alberi potati stanno fissi tra le lastre del marciapiede come pugni serrati, equidistanti e ben dritti come i lampioni ai quali si alternano. Le foglie a forma di cuore sono tutte già cadute, ormai spazzate via con i rifiuti; non c'è niente che riveli il vento. I cani sono al guinzaglio, a passeggio anziché andare da qualche parte in cerca di qualcosa, la pancia piena, le zampe più corte – uno di loro mi guarda negli occhi mentre il padrone raccoglie la sua merda in un sacchettino di plastica. Ci sono una farmacia, un'agenzia di assicurazioni sulla vita e una pasticceria. Mi unisco alla coda. Aspettiamo in fila, contemplando pasticcini glassati alla crema.

Avevo intenzione di proseguire a piedi fino ai colli, ma in realtà non c'è fretta e mi ritrovo a indugiare e origliare tra i pensionati, a ciondolare per i ciottoli, colto dal presentarsi della città come se fosse di un'altra epoca. Persino il cavallo è stato riaccolto, con tanto di carretto, e trotta i turisti su e giù tra targhe e monumenti commemorativi. Mi accorgo che anch'io sto invecchiando e mi chiedo se sono così addentro all'occidente da rendere più vago il mio senso del futuro? Da che parte è l'ovest nell'ovest? Il sole tramonta. Le giornate sono corte. 

Al calar della luce, la gente si raduna davanti al teatro attorno a piccoli chalet di legno che servono dolci grassi e vino caldo. Il fiume non gela più come una volta, ma è stata installata una piccola pista di ghiaccio dove i bambini possono pattinare sotto lo sguardo bronzeo di due scrittori che vivevano qui, quando ogni cosa aveva il suo posto. Rimango a guardare le guance rosee che girano, e per un attimo il mondo si rannicchia in una storia più piccola e calorosa, di berretti di lana e muffole. 

Guardando intorno alla pista scorgo l'unica persona non animata dalla scena, una donna sola con un'espressione distante, fissata sul ghiaccio. Non riesco a stabilire se lei eviti tutti o se sia lei a essere evitata. Ancora non si muove. Decido di rischiare amichevolezza e mi avvicino per tentare. 'Tutto bene?' Ci provo, in modo goffo. Si volge di sorpresa e scansiona i miei occhi con urgenza. Mi scuso e riprovo nella mia lingua, aggiungendo che non sono della città. Ora risponde al mio sorriso e ci presentiamo. 'Scusa', dice, 'stavo sognando, non sono abituata a questo buio così presto'. Ci scambiamo i convenevoli, ma non mi chiede di dove sono e così salto la domanda anch'io. Lei è in città da quasi un anno e io da quasi un giorno, ma nessuno di noi sa quanto resterà. Le offro una bevanda calda. 'Non posso', dice indicando due adolescenti che pattinano, 'le mie figlie – devo tornare per preparare la cena'. Di nuovo mi scruta negli occhi, passando rapidamente dall'uno all'altro. 'Magari più tardi, dopo cena, se hai tempo prima di partire?' Accetto e mi suggerisce un posto al centro commerciale che fa spremute fresche, spiegando che è uno dei pochi posti aperti fino a tardi che non sia alcolico.


Lascio lo zaino in un dormitorio dove ragazzi di tutto il mondo sono sdraiati a guardare video sui telefoni, prima di riavviarmi lungo strade tranquille di piccoli giardini ordinati e salotti a grande schermo. Le automobili sfrecciano veloci in un dramma poliziesco, le gazzelle ancora più veloci in un programma sulla natura; criminali e leoni si aggirano per il quartiere. Nessuno si avventura fuori. 

La serata è in stallo. Il mio stomaco si piega. Torno sulla statale e trovo un posto dove mangiare dei falafel. Il microonde gira. Il telegiornale è in onda. Una fabbrica di abbigliamento è crollata in una grande città mai sentita nominare. Un misterioso virus si diffonde in un'altra. Entrambe le storie sembrano così lontane quanto la foresta pluviale. 'Con tutto? Salsa piccante? ... Di dove sei?'

Arrivo al centro commerciale in anticipo e salgo e scendo le scale mobili per dare un'occhiata alla struttura. Oltre ai soliti negozi e al cinema, si sono aggiunti una palestra e un centro 'wellness'. Non ci sono finestre o prese d'aria che rivelino l'oscurità dell'inverno là fuori e i bassi soffitti sono dipinti di azzurro cielo con soffici nubi forate solo dagli spot e sprinkler spruzzatori d'emergenza. Le pareti sono a loro volta decorate con alberi: una carta da parati di foglie soleggiate in loop. Penso di nuovo alle colline boscose oltre la città e lascio che l'idea riempia il mio domani. Di tanto in tanto una porta si apre sul freddo parcheggio multipiano circostante – metà dei piani del centro commerciale sono in realtà sotterranei – ma l'ultimo piano è protetto da queste intrusioni, ed è lì che ci incontriamo.  

Qui le decorazioni sono più stravaganti, con murales di viuzze senza macchine e svariate suggestioni dell'antichità. L'intero piano è dipinto come un vago omaggio a quella sprofondante città lagunare 'da vedere prima di morire'. Ma questo luogo non sostituisce la città; anzi, costituisce, come forse tutti i centri commerciali, una sorta di nave da crociera. Sul ponte c'è un solo tavolo libero e mi accomodo. Un leone alato sorride benevolo. I noodles istantanei soffriggono al volo. Guardando due volte mi accorgo che i piccoli ulivi nei vasi sono veri. Quasi tutti i presenti hanno già mangiato, i vassoi messi da parte, ma nessuno se ne va ancora. C'è la stessa sospensione che ho percepito sul treno, quel tenere. Tutti noi a bordo abbiamo storie molto diverse, ma fintanto che il centro commerciale solca i mari agitati del mondo potrebbe essere in uno qualsiasi dei tanti paesi dove siamo nati. Magari alla fine saranno davvero questi i punti di ritrovo?

Appare sulla scala mobile e per un attimo sembra sorpresa di vedermi, ma intuisco che ha qualcosa da dire. Ordiniamo il nostro succo – frutta che ha fatto più strada di noi – e cogliamo l'occasione per cambiare tavolo e avvicinarci agli ulivi. 'Anche le mie figlie volevano uscire stasera', dice, 'ora hanno qualche amica. Non sappiamo nemmeno se potremo restare, ma stanno già cambiando e imparando la lingua. Così veloci! Non come me...' Le dico quanto bene parla la mia lingua. 'Ho studiato letteratura. Tanti libri'. Ha lavorato negli aiuti umanitari quando la guerra era nel paese prossimo al suo e i rifugiati stavano arrivando nella sua città, e poi altrove come sfollata lei stessa. Ha aiutato a coordinare progetti internazionali, con denaro inviato dagli stessi paesi che compravano il petrolio e spedivano le armi: 'L'ultimo grande progetto su cui ho lavorato si chiamava Resilience, un milione di dollari. Dovrei chiedere a te: cosa significa questa parola? Quando le bombe cadono sulle tue case e non hai nulla, quando gli attacchi aerei continuano a bombardare a prescindere – cos'è questa resilienza?' Nel mio silenzio conclude lei stessa: 'È una parola stupida.'

Parliamo di confini, lingue e dell'esperienza di raggiungere posti nuovi, finché non arriviamo tra i fiumi dove ho iniziato il mio viaggio. Mi racconta di quanto sia verde lungo le rive: 'non è sabbia come tutti pensano!' Si ferma bruscamente e noto la stessa espressione che aveva alla pista di pattinaggio: un pizzicare di tempo e spazio. Torna indietro e si rivolge a me: 'Cosa ci fai qui?' Prendo fiato e rispondo, quasi a me stesso, che sto scrivendo un libro. Il suo viso si illumina e subito mi sento in imbarazzo. 'Sei uno scrittore?' Stavolta ci penso un po' prima di parlare. 'Beh...' balbetto: 'scrivo... Magari è più facile con i verbi.' Guardandomi con grande serietà, si appoggia allo schienale della sedia senza rompere il contatto visivo. 'Non sono una rifugiata', annuncia, 'sono fuggita'.

Mi chiede di cosa stia scrivendo e ci penso ancora. 'Credevo di cercare il significato di casa', mi ricordo – macerie e rovine nell'occhio della mente, la foschia tremolante dell'orizzonte – 'ma comincio a pensare che sia piuttosto l'essere senza casa che voglio capire'. È una domanda, un invito. Lei risponde.

'Quando ti allontani da casa e vivi tra sconosciuti per molti anni – e non sai per quanti ancora – ti vengono nuove sensazioni, e allora cerchi di capirle: cos'è questo che sento? Ti chiedi: che significa casa? Come rispondere quando ti chiedono 'di dove sei?' ma non c'è più? Casa è una terra? Un sentimento? Un ambiente? Un'atmosfera? È sicurezza? Le persone? Ora, casa per me è tenerezza. Quando sono così stanca e voglio solo dormire, ho bisogno di questa tenerezza.' 

'Ho bisogno di sentirmi a casa, ma non sono a casa: questa non è la mia casa, non è la mia terra alla fine, perché sono in una situazione mutevole. Ogni giorno affronto tante situazioni mutevoli. Non so quanto tempo resterò qui... È dura. Cerco di vivere in modo positivo, flessibile, di essere più forte, cerco di adattarmi – adattati – ma... ma a volte voglio solo trovare un piccolo angolo dove essere debole, dove essere una persona vulnerabile e non dover essere forte, sai? Un posto tenero. Questa tenerezza. Questa sarebbe casa. Un angolo dove restare… dove riposare...'

'Di solito resisto a tutti questi sentimenti per tenermi calma e dico: 'Dai che sei forte, forza!'. Cerco di andare avanti e non pensare alle emozioni. Cerco di non pensare ai luoghi o ai ricordi, perché poi ti stanchi. Ma cosa dovresti fare? Cancellare i ricordi? Premere un pulsante per cancellarli? Alla fine sei un essere umano, e l'essere umano è composto da molti sentimenti. Ci sono dei retroscena nella mia mente... Sono sola, completamente, ma posso cercare questo piccolo angolo di debolezza, questa tenerezza, con qualcuno? O solo da sola? Forse avrei paura a condividerlo con qualcun altro.'

'Forse chiudo gli occhi. Forse fuggo in una grande città dove posso vedere tante persone come me, che vengono da altrove. Così quando decido di camminare lungo le strade, per vedere la gente, posso essere socievole, e quando decido invece di essere asociale posso stare sola. Forse fuggo al mare – il mare significa molte cose – e deve essere una città verde. Bisogna sfuggire verso la natura perché veniamo dalla natura alla fine. Così mi siederò, davanti al mare, dove posso stare sola per riflettere: perché non siamo in pace? Perché non viviamo in pace?' 

'Penso che molte persone la pensino come me.'

Lascio atterrare le sue parole. Tutti gli altri se ne sono andati. Qualcuno sta passando il mocio. Anche il centro commerciale chiude a un certo punto, ed è quasi mezzanotte. Posso solo dirle quanto mi sembri coraggioso riconoscere questa vulnerabilità, dare spazio a sentimenti di perdita e viverli. La guardo negli occhi. Ha visto l'inferno. Ha vissuto i miei incubi. Si chiama Ula. Scendiamo le scale mobili e ci diciamo i nostri addii. 

Fluisco indietro per strade che non conosco, gli occhi inumiditi sotto una luna crescente. Forse una perdita non è per forza un vuoto da riempire.


Quando mi sveglio, una porta resta ancora aperta, per un pelo, a tutti gli altri giorni in cui mi sono svegliato, e mi ci affaccio invano, realizzando e materializzando esattamente dove sto – accanto al radiatore che ha tintinnato tutta la notte. Lascio i ragazzi a russare e girarsi, e sguscio fuori per vestirmi e allacciarmi in pace, avviandomi poi alla salita in una grigia mattina ventosa, alla speranza di trovare un angolino di tenerezza tutto mio. 

Gli ultimi blocchi abitativi sono accolti dai primi alberi sregolati, un chiasso di betulle magre, sventolanti fra l'agrifoglio e la rosa canina. Una breve grandinata segna la soglia, piccole perle di ghiaccio rimbalzano dal marciapiede laddove cede il passo al morbido ciglio della strada. Non ci si aspetta che qualcuno superi questo confine tacito a piedi, e mi ritrovo un po' stretto tra i veicoli e un recinto diroccato. Cartelli che vietano l'accesso avvertono di una zona di addestramento militare e rinunciano a ogni responsabilità nei confronti di chi entra, ma il filo spinato è rosso di ruggine e gli alberi hanno iniziato a crescervi intorno, racchiudendo le spine con il loro tessuto molle. Finalmente il recinto crolla del tutto in una siepe spontanea e riesco a infilarmi nella boscaglia per proseguire sotto gli alberelli scricchiolanti. Sono troppo giovani per avere una chioma completa e ciuffi di erba secca persistono nella lettiera di foglie. Perdo un passo; una cinciarella giace congelata sulla carta.

Non passa molto che incappo in un'altra strada e non appena un singolo raggio di sole strilla da metallo e asfalto bagnati, la mia ombra balza di nuovo nel bosco – allucinazione negli specchietti retrovisori. Mi chiedo se le radici e le ife fungine di ambo i lati diventeranno abbastanza lunghe un giorno da incontrarsi e connettersi sotto il traffico? Quanto è profonda una strada? Il vento mi sferza i capelli e sbilancia, sballottandomi mentre vado. Gli alberi flessuosi si lasciano ondeggiare, esperti nello stare fermi. Faccio fatica a distinguerli senza le foglie e le caratteristiche cortecce che verranno solo con l'età. Le fitte schiere di esili tronchi non assomigliano granché ai boschi maturi delle foto e mi rendo conto che devo addentrarmi molto più a fondo per trovare la foresta che sto cercando.

Raggiungo una prima cresta e faccio una smorfia. Da qui il colle cade in un'altra valle prima di risalire verso un rilievo più alto. Sarà quello il verde che vedevo dal treno, un po' più in là di quanto sembrasse. Seguo il dorso, cercando una visuale migliore, e noto un terrapieno rialzato che mi corre parallelo. Lungo la sua curva, tra gli alberi, ci sono lastre lapidee incise con numeri, pietre miliari che misurano la distanza dalla città, tutto ciò che resta di un'altra ferrovia. Nel buio del versante vedo alcuni faggi da cui il bosco prende il suo nome, nessuno dei quali abbastanza maturo da aver visto cosa accadeva qui quando i treni arrivavano senza finestre. Per un periodo i prigionieri dovevano fabbricare mattoni dall'argilla locale, ma per scavare la terra dovevano prima abbattere gli alberi. Quelli che trovo qui ora sono cresciuti dalle loro tombe. 

Se seguissi ancora le pietre arriverei al complesso del museo, ai recinti elettrificati e alle torri di guardia, ai pullman e alle macchine fotografiche, mentre a valle si vede ancora la città – puoi ancora identificare i campanili. Un tiro di schioppo. Due passi. Oggi i campi sono molto più lontani, fuori vista oltre un continente di monumenti, ma tutti noi sappiamo che ci sono. Non è una questione di visibilità. Da qui vedo che non lo è mai stato. 

I giovani faggi lasciano andare qualche altra foglia che svolazza in un turbine prima di posarsi con le altre su un colle che richiede la sua foresta. Forse un giorno futuro, se il clima lo consente, alcuni di questi alberi sorgeranno qui ancora da un folto sottobosco immemore. 


Passano ore prima che finalmente senta l'odore della corteccia e la resina che avevo immaginato. Il cielo corre. I piedi dolgono. Ho dovuto attraversare una valle di villaggi suburbani prima di individuare un sentiero che mi conducesse all'ombra umida dei sempreverdi. Ora il vento impetuoso urla ancora più urgente tra gli aghi, un rombo oceanico, e devo respingere l'allarmante sensazione che non ci siano altri suoni in questo silenzio tumultuoso. Qualcosa degli alberi mi induce a muovermi, in quanto nessuno di loro sembra chiamarmi, e salgo a passo di marcia, convinto di dovermi immergere ancora di più. C'è qualcosa che non quadra. 

È una fangosa strada solcata da tracce cingolate che mi taglia in mezzo il pensiero e, non sapendo più da che parte andare, mi soffermo a guardare meglio gli alberi. Sono tutti abeti rossi. Sono tutti grandi uguali. Sono tutti equidistanti. È una piantagione. È stata piantata per essere abbattuta. È polpa di cellulosa. Carta igienica. Se sono fortunato, le pagine di un libro. 

Non è questa la foresta che cerco. Cerco qualcosa di non umano. Qualcosa di più antico – qualcos'altro – qualcosa che è sopravvissuto. Continuo ma so già cosa vedrò: distese di ceppi dove le macchine hanno già effettuato il netto taglio. Tiro fuori il mio telefono dalla tasca per navigare, avvicinando il pollice e l'indice insieme per rimpicciolire la mappa alla disperata ricerca di un'altra tonalità di verde: non può essere tutto così – tanto valeva fermarmi alle prime betulle che ho visto ai margini della città! 

Mi siedo su un ceppo e sfogo il fiato. Gli abeti offrono il loro ossigeno a prescindere. Tocco lo schermo e digito 'antica foresta' nella barra di ricerca. Appaiono le solite immagini di tronchi nodosi e rigogliosi verdoni, penetrati soltanto da un raggio di sole. Ma dove sono? Ci riprovo, cercando più specificamente un'antica foresta qui nel vecchio mondo. A sorpresa appaiono una serie di notizie internazionali. Sembra che non sia l'unico a cercare. Migliaia di manifestanti hanno viaggiato dalle città per provare a proteggere uno degli ultimi frammenti rimasti, prima che venisse ripulito nell'espansione di un'enorme miniera di carbone. Alcuni sono lì da qualche anno: hanno costruito case in alto sugli alberi, collegate da passerelle di legno. Clicco per vedere i video. Pioggia, corde e catene. Volti giovani illuminati dalle luci delle forze dell'ordine sotto elicotteri che volteggiano. Ed escavatori da 13.000 tonnellate, grandi come palazzoni, che avanzano per il paesaggio cancellato. La maggior parte della foresta è già scomparsa, abbattuta nel corso della mia vita, e io sono già in viaggio, sperando di scorgere gli ultimi alberi prima che sia troppo tardi. Ciò che resta è situato sempre più a ovest, tra me e il mare. Da qualche parte nella piantagione un colpo di fucile risuona nell'aria. 


La terra si appiattisce e il vento cala durante la notte. Al mattino, una nebbiolina si stende bassa lungo l'orizzonte. Dal trasudante velo un singolo monte si erge imponente, solido, e mi dirigo d'istinto in quella direzione, immaginando che i suoi ripidi pendii siano ciò che ha salvato gli alberi finora. Non c'è segno della miniera, ma giganti a sei braccia si avvicinano da tutte le parti, i loro cavi ad alta tensione crepitano alti, proiettili che sfrecciano l'aria verso phon e frigoriferi. Nel mezzo devono esserci anche le centrali termiche: fumo nelle nuvole. Tutto sta scomparendo. La foschia si addensa in una fitta nebbia.

Quando raggiungo il monte vedo a malapena oltre qualche passo, ma da un parcheggio deserto parte un comodo sentiero tra gli alberi a salita misurata. La nebbia condensa; gli alberi gocciolano. Ascolto il lento battito d'ali di un corvo in alto; agguanto il volo di una ghiandaia in basso. Da quel poco che riesco a scorgere, ammetto che gli alberi non sembrano affatto antichi, ma c'è un'incredibile varietà: biancospini e betulle, faggi e lecci, aceri, ontani, ciliegi e noci, oltre a diversi altri che non sarei in grado di identificare senza i tanti pannelli informativi all'altezza del ginocchio. Di nuovo non è la foresta che mi aspettavo, e gli alberi sono così ordinati che è impossibile credere che non siano stati piantati anch'essi. Alla sommità altri sentieri si incrociano nel grigio opaco. Ne provo uno dopo l'altro, ognuno una sorta di strana passeggiata in una natura etichettata, finché non raggiungo il punto più alto: un cartello mi guida al belvedere panoramico. C'è una 'torretta antica' su cui salire, e prendo le sue ripide scale di mattoni nelle nuvole. Mi affaccio sulla più grande miniera del continente – ma non vedo nulla. Quello che mi sfugge è che sono pure in cima al più grande monte artificiale del mondo.

Comincio la discesa dall'altra parte, tenendo il telefono in mano per orientarmi. Decido che se trovo il bordo della miniera e ne seguo semplicemente la circonferenza, prima o poi troverò la parte antica della foresta. Le immagini satellitari rivelano però le dimensioni: il bacino della miniera è grande come una città. La maggior parte dei pixel verdi sono qui dove ho esplorato tutta la mattina, ma ci sono pure alcuni piccoli frammenti all'altra estremità e allungo il passo per raggiungerli. Il lontano ronzio di un elicottero rafforza l'urgenza della mia direzione: la nebbia si sta alzando. 

In effetti, le gocciole sospese iniziano a cadere mentre discendo lo strano terreno, finché non cado fuori anch'io dalla nuvola insieme alla pioggia in un altro parcheggio. Comincio la mia marcia a ombrello lungo il ciglio della strada, sentendomi piccolo contro il flusso di camion. Un ripido argine di rovi è sormontato da un alto muro che conferma ciò che c'è dall'altra parte, mentre qui sotto i tubi industriali corrono via nei campi, probabilmente pompando acqua di falda per permettere agli scavi di andare più in fondo. La pioggia si attenua. La pioggia aumenta. Ancora l'elicottero volteggia sopra. Più passa il tempo più mi ritrovo a sperare di vedere la miniera stessa; l'idea dell'antica foresta sta diventando sempre più remota e astratta. E poi, di colpo, eccola lì dove non c'è: un vuoto, un paesaggio mancante, un buco nel mondo. 

C'è una piattaforma panoramica pubblica, completa di ombrelloni in metallo e sedie a sdraio, ma finchè non mi avvicino al ciglio per guardare giù, vedo solo nuvole. Il lato opposto rimane oscurato, troppo lontano per capire dove finisca la fossa. Mi accosto. Sbircio dentro. Laggiù in basso, un filone scuro di lignite carbone si estende in lontananza, destinato a bruciare al cielo: milioni di anni di vita compressa se ne vanno in fumo. I colossali escavatori lo stanno estraendo lungo mega terrazze di roccia, ma non c'è niente di familiare a cui aggrapparsi per avere un'idea della scala, nessun modo per misurarne la profondità. D'improvviso l'ovvia verità mi colpisce: il buco sarà profondo quanto è alto il monte! Il monte è il buco, invertito! Finalmente capisco cosa stia accadendo. L'intera miniera avanza man mano che le macchine scavano in avanti e tutta la terra e roccia rimosse si ammassano alle loro spalle. Il monte può avere solo qualche decina d'anni – la mia età – e quegli alberi sulle sue pendici saranno stati piantati per 'compensare' l'antica foresta persa durante il processo. Mi sembra ovvio, mi sento ingenuo, ma nonostante gli indizi non avevo la fantasia per percepire la portata di una tale operazione. 

Con un senso di vertigine mi affretto a trovare gli alberi che sono venuto a cercare. Adesso so senz'altro dove saranno – se il monte forgiato è dietro la miniera, la foresta deve essere di fronte – ma il mondo intero sembra rovesciarsi con il cadere di tutto nel dubbio. La pioggia scroscia. L'oceano si alza. Gli incendi devastano le foreste, gli ecosistemi collassano e gli habitat scompaiono, mentre di fronte a me un altro villaggio svuotato attende mezzo demolito che la miniera lo divori – le sue macerie si uniscono a tutte le altre in questo lungo viaggio verso l'occidente. I miei piedi pestano la terra, l'impronta di carbonio pesante nel fango, mentre cerco di raffigurarmi la foresta naturale che desidero, un luogo incontaminato ancora in piedi. 

Mi arresto. In fondo alla strada c'è un groviglio di sagome alte e angolari: un piccolo boschetto senza pretese, niente di più e niente di meno. 

Mi avvicino. Sono questi gli alberi. Entro e calpesto le loro foglie. Ovali di carpino, lobi di quercia. Niente si muove. In bilico tra i rami ci sono i resti delle case sgomberate. Ogni tanto un'asse cigola o un telone solletica, ma non c'è segno né di polizia né di manifestanti. Non c'è più nessuno. 

Vago alla deriva nel bosco, scavalcando rami caduti e detriti tempestosi. Ogni tronco è stato dipinto a spruzzo con un numero e una X, un giallo luminescente che cola un po' lungo la corteccia ruvida. Conteggiati. Contrassegnati. Condannati. 

Cosa sto cercando? Ripenso alla verde valle sognata. Ripenso alla città dalla quale continuo a scappare e dove mi ritrovo di continuo. Ripenso al modo in cui Ula ha descritto la casa, come un angolino tenero dove permettersi di essere vulnerabile – di essere senza casa – e riconoscere come ci si sente. E mi inginocchio sulle foglie bagnate del suolo pulito della foresta.

In fondo so cosa significano questi paesaggi di colpa. La città è la mia casa e la mia mancanza di casa, il mio luogo di nascita e il mio canto del parto. È una nave galeone costruita dallo sradicamento della foresta – una radura e una rimozione – un piumone fumoso per proteggermi dal mondo della vita e della morte.

E la foresta è il mio lutto. Mia mamma non c'è più.

Sono quasi tornato. Quasi tornato là dove giocavamo tra le onde. Quasi tornato là dove potevo trovarla quando potevo ancora tornare.

Voglio solo abbracciarla, essere abbracciato. Voglio solo dirglielo, sentirlo. Bramo e trattengo. Tengo e stringo. Tengo più stretto che posso, aggrappandomi al buco che ho dentro, e ululo nel legno.


Asciugo le lacrime. Non c'è modo di tornare indietro, lo so, e sento un'improvvisa convinzione che i punti di ritrovo del futuro saranno lì dove potremo affrontare tutto questo – luoghi di sincerità dove troveremo il coraggio di fermarci, un po' nudi, per vedere tutti gli altri sperduti che ci accompagnano. Mi alzo e strappo una striscia dai miei vestiti per legarla all'albero.


9. Mary Celeste


"... L'aria è densa di sale. Tutto rallenta. Seguo simboli di barche sui cartelli stradali. Tutto tarda. La notte indugia nell'oggi come le crosticine di sonno alla coda dei nostri occhi, le lacrime e il muco del cielo che si raccolgono in sacche improvvisate di sopravvivenza discreta: cartone sotto il ponte; coperte sulla ghiaia; una tenda dietro l'edera. Quella tenda sarebbe squarciata se trovata dalla polizia, ma gran parte degli agenti sono ancora a letto dopo una lunga notte di lavoro. È il primo dell'anno, le esplosioni ricordate dai detriti variopinti fra i vetri frantumati – razzi, petardi e scintille, bombe di brillantini. I gabbiani hanno già recuperato le fritture e altri caduti commestibili, ma bottiglie di spumante mezze piene aspettano in mezzo alle strade mentre le ultime bollicine si dissipano nel mattino  ..."

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L'aria è densa di sale. Tutto rallenta. Seguo simboli di barche sui cartelli stradali. Tutto tarda. La notte indugia nell'oggi come le crosticine di sonno alla coda dei nostri occhi, le lacrime e il muco del cielo che si raccolgono in sacche improvvisate di sopravvivenza discreta: cartone sotto il ponte; coperte sulla ghiaia; una tenda dietro l'edera. Quella tenda sarebbe squarciata se trovata dalla polizia, ma gran parte degli agenti sono ancora a letto dopo una lunga notte di lavoro. È il primo dell'anno, le esplosioni ricordate dai detriti variopinti fra i vetri frantumati – razzi, petardi e scintille, bombe di brillantini. I gabbiani hanno già recuperato le fritture e altri caduti commestibili, ma bottiglie di spumante mezze piene aspettano in mezzo alle strade mentre le ultime bollicine si dissipano nel mattino. 

Nelle desolate zone industriali delle periferie, i rifiuti sono diversi. Qui i rifiutati scartano cartoni di latte e scatolette di pesce, un ulteriore pasto a posto. Qui un altro anno porta soltanto un altro giorno: un altro giorno per attendere quel messaggio che un altro gommone è pronto.

Gli anni sono per chi ha un posto dove stare.

Arrivo dov'era l'accampamento e trovo solo erbacce nelle sabbie. Non rimane niente delle tende né delle tettoie né delle cucine né dei negozi, niente dei punti informativi, delle fontane, nessuna traccia della chiesa né della moschea: nulla sulla mappa, nulla segna il posto. Un processo di eliminazione più scrupoloso deve essere seguito a quello delle ruspe, e tutto ciò che rimane è un rosso cartello che vieta l'ingresso alla distesa deserta, onde di dune che bloccano la vista sul mare. 

Qui da qualche parte centinaia di persone vivono ancora senza tetto lungo la costa, ma non possono più radunarsi. Punti di ritrovo permettono di formare gruppi e organizzarsi – persino due teli potrebbero dare un piccolo senso di casa se condivisi – e in nessuna circostanza ti devi sentire parte di questa realtà. Questo è il nostro 'hostile environment', una politica per incoraggiare ognuno a rimanere nel proprio ambiente ostile. Malvenuto. Malvenuta. A mani vuote sarai perseguitato, sminuito e spruzzato di peperoncino, il telefono e i documenti ti saranno confiscati. La carità si stigmatizza, la distribuzione di cibo si criminalizza, i diritti umani non si riconoscono più. Solo in questo modo non sarai venuto. Solo così ti salveremo un giorno. 

Solo che prima di partire molti hanno visto assai di peggio. E intanto sono qui, ora.

Detto e fatto, le persone continuano a gravitare verso paesi dove la ricchezza continua a concentrarsi, nonostante le pessime condizioni. Persiste la speranza che le cose possano solo migliorare dall'altra parte: un'ultima frontiera, un'ultima città, un'ultima spinta; un'ultima possibilità prima dell'oceano. 

Respingente e spaventata, l'isola di là risponde destinando cifre da capogiro per militarizzare le sue 'offshore' difese al largo, tentando in vari modi di disancorarsi dal resto del continente. Il futuro si dilata nel retrovisore: ormai la massa dei manufatti fabbricati pesa più dell'intera biomassa vivente; l'idea che ci sarà sempre più di tutto si rispecchia nel dubbio che ci sarà sempre meno di tutto. I ponti levatoi si stanno alzando. La strada d'accesso al porto è stata isolata dalla città, le sue alte fortificazioni formano una galleria di filo spinato che costeggia l'invisibile accampamento su ripidi terrapieni. Provo un groppo alla gola a vedere i vestiti lacerati impigliati sugli ardiglioni. 

In una strada laterale passo un distributore di benzina in disuso, dove un ragazzo sta facendo colazione da solo. La colazione è un pezzo di pane, appoggiato sulla pompa. È difficile stabilirne l'età – è privo di anni anche lui  – ma a quanto pare dovrebbe essere a scuola, e sicuramente non da solo. Quanta strada ha fatto? Lo saluto e chiamo, ma mi guarda attraverso, masticando lentamente lo stesso stantio boccone. I suoi occhi sgranati mi fissano come se io non ci fossi, come se abitassimo mondi paralleli che, pur sovrapponendosi, non possono interagire. Cos'altro può avergli insegnato la vita? Uno di noi ha il passaporto e l'altro no. Mi avvicino per riprovarci, ma lui si volta e schizza via per un buco nel recinto, dileguandosi tra i magazzini. Mi pento. Non so se gli ho dimostrato la nostra reciproca esistenza o soltanto interrotto la sua colazione. 

Più tardi, quando mi scannerizzano il viso ai controlli di sicurezza, mi rendo conto che il suo viso è rimasto impresso nel mio: gli occhi non si chiudono.


Il traghetto è caldo e la puzza del gasolio, abbinata alle colazioni grasse e profumerie, mi induce a uscire sul ponte per prendere un po' d'aria. Non manca. La brezza marina tira. La pioggia sa di mare. Un paio di uomini sono già fuori con le spalle al muro, le mani alle bocche per riaccendere le sigarette in silenzio – camionista e custode. Cosa resta da dire? Il mare lambisce il molo. Le vibrazioni aumentano. Salpiamo.

Oltre i frangiflutti il vento s'ingrossa e la barca comincia a mareggiare su e giù per le onde. Guardo la città ritirarsi, ma nessuno ci guarda partire: gli stanchi porti dell'occidente hanno rinunciato a rivolgersi verso l'esterno. Dal mondo non si estrae più, ci si protegge. L'orizzonte non promette niente. La barca non va in AMERICA

Sprofondiamo in una nebbia salina che collega il mare alle nuvole – acqua, acqua, acqua – e le luci calanti del porto si confondono. Le enormi eliche lasciano una traccia bianca tra i grigi e i verdi, la nostra scia come una strada di ritorno in dissoluzione. Gabbiani pirata ne approfittano, scendendo in picchiata nell'agitata acqua, ancora e ancora, predando pesciolini intrappolati nella turbolenza. 

Il cielo si appanna di più, la nebbia fitta, e colpiamo un'onda più larga, scatenando gli antifurti delle auto sul ponte sottostante. Non si placano, stridendo e lampeggiando nell'oscurità come se volessero negare la banalità del passaggio. Prego che nessuno stia tentando una traversata parallela in questo tempo schifoso, temendo di assistere un kayak o gommone in prima persona, temendo che probabilmente non potrei essere d'aiuto. Mantengo comunque lo sguardo, vigile alla veglia nonostante l'ondata di vertigini che mi assale, la superficie porosa dell'acqua luccica debolmente sopra il fondale, gli allarmi continuano a suonare. Non mi distoglierò. Non mi volterò. Non mi nascondo.

E poi d'un tratto il traghetto emerge dal suo lenzuolo come la terra emerge dalla sua acqua, la traversata è quasi completa. Eccolo in un lampo istantaneo, eccolo tutto – l'eco biancastra del gesso. Ecco il sodio e il calcio. Ecco il primo dentino. Ecco la casa a schiera e il telefono sganciato. Ecco lo scalo e lo svincolo, l'uscita e la buca, l'ispida erba e la ginestra spinosa. Ecco il biancospino e la tana del coniglio, la scogliera e il precipizio, l'erosione del suolo. Ecco la caduta e la schiuma silenziosa. Ecco l'ultimo graffito. Ecco gli sconti offertissime e i negozi sfitti, la scorciatoia e la videosorveglianza. Ecco la 'proprietà privata' e la 'zona delimitata', gli avvertimenti e gli avvisi, il consiglio di non fermarsi sotto i frassini infettati. Ecco la volpe al cassonetto e il pranzo visto dall'esterno, le mani fragili che tagliano pesci pastellati in bocconi sempre più piccoli. Ecco gli acquitrini e le dune, i cannolicchi e i castelli di sabbia melmosi. Ecco la centrale nucleare. Ecco la casetta dei pescatori di vacanza. Ecco la motovedetta che aggira la punta, la memoria della piccola barca a vela del nonno che dondola nella sua scia. Ecco il faro che balena, gira, invita, allerta. Ecco il metal detector e le migliaia di pozzanghere di cielo oca. Ecco il legname alla deriva e la plastica sminuzzata, le alghe e gli escrementi. Ecco l'impronta del cane fra i getti dell'arenicola, quella stessa zampa qualche passo in avanti, fino in fondo al capo. Ed ecco il bambino scalzo con il sasso tondo in tasca, che attraversa la spiaggia a bassa marea, la spiaggia che conosce da una vita, la spiaggia dove sorelle e fratelli atterrano oggi in cerca di una vita nuova. Ecco il promontorio. Ecco l'ultima vista oceanica verso ovest. Ecco tutto. L'eco di tutto ciò che posso vedere con i miei occhi oltre la foschia grigia della distanza. 

Cedo, lasciandomi crollare sul fresco ripiano di ciottoli. Guardo al di là delle onde in primo piano, verso l'orizzonte fosco dove una volta c'era il futuro, e mi concedo la mia morte. 

Non c'è modo di tornare e non c'è modo di andare avanti. La linearità del tempo occidentale ha inaridito il passato e sommerso il futuro, dividendo i vivi e cancellando i morti. 

Così mi tolgo la bussola ticchettante dai polsi e poggio il mio piccolo sasso tondo insieme agli altri. Qui può restare, esposto a tutti gli elementi, dove il mare e il cielo si arenano insieme. 

Immagino le gemme appiccicose di quel salice sradicato, un po' più a valle su qualche nuova isoletta di sabbia, e mi alzo ancora. Ogni momento vivente è una nascita; ogni momento vivente è una morte. È ora di condividere ciò che posso. 


Prima di sedermi a scrivere vado a trovare i miei nonni, dove sento che un ultimo paesaggio appartiene a questo viaggio. Chiedo con timidezza a mia nonna di poter vedere la sua pancia, e se magari potessi pure appoggiarci le mani sopra. Lei acconsente senza domande e alza il maglione. Mio nonno ci affianca: 'Ecco dov'era la sua mamma'. 

E so che ci sei ancora.

So che, se te lo permetto, ti troverò anche in tanti altri posti – in piccoli momenti selvatici di meraviglia senza tempo.

            RINGRAZIAMENTI

Questo lavoro è stato composto in molti luoghi. È stato composto in viaggio. Inoltre, è stato composto nelle case di amici che mi hanno accolto quando ne avevo più bisogno, a volte per lunghi periodi e con eccezionale generosità. Altri amici, a loro volta, hanno trovato vari modi per accompagnarmi lungo la strada con le loro idee e domande, donando la propria esperienza attraverso il tempo che abbiamo condiviso – questo lavoro ha molti autori. Questi atti di amicizia sono stati immensamente fondanti e mi hanno permesso di esplorare queste cose con maggiore concentrazione e profondità, senza perdermi. A tutti voi, i miei più sinceri ringraziamenti.

In particolare ringrazio Lisa per la sua fiducia e la serenità che infonde. Ringrazio Ottavia per essersi offerta di leggere man mano che il testo cresceva, per avermi aiutato a capire dove stavo andando. Ringrazio Alessandra per il suo incoraggiamento e la sua curiosità. Ringrazio Jason e Ruth che, quando all’improvviso ci hanno detto ‘restate a casa’, hanno subito offerto il loro appartamento. Altrettanto ringrazio Michael e Judith che mi hanno accolto quando ero più lontano da casa di quanto fossi mai stato, e Krystian che è venuto a cercarmi. Tutti voi vi siete fidati; tutti voi avete aperto una porta nella tempesta. Ringrazio anche coloro che hanno chiamato fra le onde quando non ho risposto, e chiedo scusa. In particolare qui ringrazio Sarah, che mi ha insegnato così tanto cosa può significare casa.

Ringrazio tutte le tantissime persone che hanno raccontato le loro intime storie di casa a un perfetto estraneo, esplorando il mistero insieme per un momento. Tra queste, un ringraziamento molto speciale va a Ula Sulaiman, le cui parole appaiono come parte del dialogo nell’ottavo capitolo. La conversazione originale si è svolta in un altro centro commerciale, in un altro Paese, ma la sua riflessione si è rivelata una stella polare per orientare la ricerca. Ringrazio dunque Abed Qabbani che ci ha messo in contatto, e tutti i suoi colleghi a Jouri ad Antep che hanno aiutato a mettere in luce e in questione la domanda cos’è casa. Ringrazio anche Massimo Mucchiut, con cui ho discusso molti dei temi prima di iniziare il viaggio.

Infine, ringrazio la mia famiglia che ha sempre incoraggiato senza mai dubitare del mio percorso – un dono meraviglioso.



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